domenica 4 aprile 2010

BLOG TERMINATO

Questo blog termina qui. Grazie a tutti quelli che hanno contribuito!
Potete continuare a seguire le nostre iniziative su http://www.actaconsulting.it/ e su http://conparolesue.jimdo.com/

lunedì 11 maggio 2009

43

Ho sottoposto questo gioco di “caccia alle gazzelle” a centinaia e centinaia di persone.
In genere, io svolgo il ruolo di “animatore” del gioco.
In una prima fase, chiedo a ogni giocatore di decidere cosa fare. In questa fase, i giocatori non si incontrano, non si parlano (li tengo proprio in stanze separate), e per questo spesso decidono di non collaborare, cercando di accaparrarsi il bottino maggiore per sé a scapito dell’altro. Ma siccome entrambi fanno questo ragionamento, finiscono per cadere nella situazione peggiore.
Dopo alcune giocate di questo tipo (che finiscono prevalentemente nella situazione 1+1), il ragionamento è chiaro:
Io che cosa mi aspetto? Se non ti conosco e non ho motivo per fidarmi di te, noto che, indipendentemente da ciò che farò io, per te la scelta migliore sarà comunque quella di barare. Come mostra la tabella, infatti, se io coopero, tu barando ottieni di più (3 gazzelle anziché 2); e se io baro, tu barando ottieni comunque di più (una gazzella anziché niente). Pertanto, ne deduco che tu sceglierai di barare.
La scelta più razionale a livello individuale è quella di non cooperare!
Ma siccome entrambi siamo esseri razionali, entrambi decidiamo di barare e finiamo nella situazione peggiore a livello di “sistema”: 1+1=2, il risultato peggiore se si calcola la somma dei due giocatori (negli altri casi abbiamo o 3 o 4).
Alla fine ogni giocatore capisce e fa questo ragionamento: a te conviene barare. Ma naturalmente tu a tua volta, applicherai questo medesimo ragionamento a me, convincendoti che io barerò. Così, ciascuno di noi sa che l’altro sceglierà di barare e che, di conseguenza, torneremo a casa dalla nostra battuta di caccia con una sola gazzella a testa, che probabilmente sarebbe troppo poco per giustificare lo sforzo richiesto.
Presto si sviluppa una certa frustrazione, causata dal fatto che io, come “animatore” del gioco non sto permettendo ai giocatori di incontrarsi (si noti per inciso che il nome originario del gioco è proprio dilemma del prigioniero: di cosa sono prigionieri i due giocatori? Proprio dell’impossibilità di comunicare!)
A questo punto inizia una seconda fase, in cui permetto ai giocatori di incontrarsi.
Qui i ragionamenti cominciano a cambiare:
Se ci conosciamo e ci fidiamo l'uno dell'altro, possiamo promettere di collaborare e aspettarci di essere creduti. In questo caso, vale la pena di collaborare per la caccia, dato che otterremo due gazzelle a testa: la fatica della battuta sarà ben ricompensata a livello individuale (2 gazzelle) e ottimamente ricompensata a livello di gruppo (2+2=4, massimo possibile).
Così, se ci fidiamo vicendevolmente, abbiamo davanti migliori opportunità: il risultato complessivo sarà più alto.
Il fatto di incontrarsi, di entrare in comunicazione permette di trovare un accordo per la situazione migliore. Spesso i giocatori impiegano un po’ di giocate per imparare a fidarsi a vicenda, per stipulare un accordo e per rispettarlo. A volte uno dei due si fida di più e coopera subito, ma l’altro lo “frega” e si becca 3 gazzelle. A volte, il cooperatore, bruciato dall’esperienza, non si fida più per diverse giocate. Per diverse giocate i due ricadono nella situazione peggiore.
Ma praticamente sempre (è solo una questione di tempo) i giocatori imparano progressivamente a fidarsi e a convergere sulla situazione migliore. Spesso elaborano anche discussioni creative su come garantire l’accordo: firmiamo un documento, esistono delle punizioni, ci mettiamo d’accordo per dividere sempre in ogni caso il risultato della caccia, ecc. Queste elaborazioni sono interessanti perché ripercorrono spesso quello che nei secoli ha fatto l’umanità nell’ambito del funzionamento sociale e del diritto positivo: accordi, contratti, leggi, premi, pene, punizioni, ecc.
La cooperazione, quindi, non è un gioco a somma zero (dove uno vince solo se l'altro perde), ma è un gioco in cui possono vincere entrambi. Se gli esseri umani non fossero stati in grado di cooperare in questo modo, non sarebbero probabilmente sopravvissuti alle asprezze della vita nella savana.
Probabilmente questa capacità è stata uno dei grandi vantaggi evolutivi della specie homo.
Oggi possiamo dire che l’evoluzione ha “cablato” nei nostri neuroni la capacità di collaborare, di essere animali sociali. Ma la cosa interessante è che questa etica profonda è fondata, come dimostra il gioco, non necessariamente su un’etica dei valori (“si deve collaborare perché è giusto”) ma anche solo su un etica delle conseguenze, ovvero sul calcolo razionale dei pro e dei contro delle diverse alternativa (“si deve collaborare perché conviene”).

martedì 28 aprile 2009

42 A caccia di gazzelle

Proviamo a immaginarci nei panni di due nostri progenitori che s’incontrano e si mettono a discutere se partire per una battuta di caccia alle gazzelle.
Chiamiamoci «tu» e «io».
L'esito della caccia dipenderà fondamentalmente da come ognuno di noi accetterà di fare la propria parte. Io posso scegliere di cooperare, aiutandoti a catturare le gazzelle e mettendo in comune le prede, oppure di barare, lasciando che sia tu a fare tutta la fatica e venendo poi a sottrarti gli animali uccisi. Naturalmente, anche tu hai davanti la medesima alternativa.
Se rimaniamo insieme, otterremo il risultato migliore - due gazzelle a testa. Ma se tu bari e io no, tu tornerai a casa con tre gazzelle, e io resterò a mani vuote - o il contrario, se sarò io a scegliere di comportarmi slealmente. Infine, se sceglieremo entrambi di barare e ce ne andremo ciascuno per conto proprio, alla fine della giornata avremo catturato soltanto un animale a testa.
Ora immedesimati in uno dei due cacciatori. Cosa fai?

venerdì 20 marzo 2009

41 Giochi di cooperazione

Iniziamo oggi un breve percorso sulla questione della cooperazione.
Nel 2005 l'israeloamericano Robert J. Aumann e lo statunitense Thomas Schelling ottennero il premio Nobel per l'Economia per i loro studi sulla teoria dei giochi e per aver tramite questi dimostrato che la cooperazione è più produttiva della guerra
La matematica della teoria dei giochi è molto complessa, ma uno dei suoi cardini si fonda sul famoso dilemma del prigioniero che non a caso parla proprio di collaborazione. Ne ho trovato una versione efficace in un libro di Richard Layard (“Felicità”, Rizzoli) e ve la proporremo nel prossimo post.

domenica 15 febbraio 2009

40. Incapaci di giocare

I casi raccontati nei due post precedenti riguardano un fatto su cui oramai concordano tutti gli psicologi, gli economisti, i biologi: l’evoluzione ha “cablato” nel nostro cervello riposte automatiche che poco si accordano con la complessità.
Simon ha dimostrato che il nostro cervello non è in grado di cogliere la complessità. Kahneman (nella foto) ha dimostrato che nelle decisioni che riguardano dinamiche collettive come quelle economiche non siamo così razionali come vorrebbe la vecchia teoria dell’homo oeconomicus.
In effetti, per almeno un milione di anni siamo vissuti in piccole comunità, abbiamo combattuto per il cibo contro competitori potenti, ci siamo difesi da predatori feroci. Questo ha fatto sì che la selezione naturale ci dotasse di risposte automatiche verso il pericolo, ci orientasse a cercare ripetizioni e persistenze nella realtà, ci rendesse sospettosi verso gli estranei, ci spingesse a vedere alleati solo in quelli del nostro ristretto piccolo gruppo.
Si tratta, in generale, di automatismi adatti a giochi “piccoli” e a “somma zero”.
Nulla a che vedere con un’economia e con una cultura globalizzata.
Internet sta prendendo il piccolo australopiteco diffidente e lo sta sbattendo nell’oceano dei giochi “a somma maggiore di zero”, dove le opportunità sono enormi ma lui non ha occhi per vederle.

sabato 24 gennaio 2009

39 Il tacchino in Internet


Vediamo un altro errore tipico della nostra mente di fronte alla conoscenza. Internet (insieme alla tivù satellitare) stanno aggiungendo qualcosa di più evidente alla vecchia questione del pollo di Bertrand Russell. Nella sua versione più conosciuta (americanizzata) essa è raccontata come la storia di un tacchino. Questo tacchino era piuttosto felice; ogni giorno un umano si presentava dalle sue parti per dargli da mangiare. Man mano che il tempo passava, il tacchino aumentava la propria certezza che anche l’indomani, e ogni giorno a seguire, l’umano gli avrebbe portato da mangiare: dopo diversi anni non c’era oramai da dubitarne. Benediceva Dio per avergli dato questa fortuna, una vita di ozio e tranquille certezze. Ed era anche abbastanza orgoglioso del fatto di avere questa abilità di previsione: ogni giorno era in grado di prevedere con ragionevolezza che il giorno dopo avrebbe avuto da mangiare, e il giorno dopo i dati gli confermavano la sua previsione. La felicità aumentò ancora quando cominciò a notare che le razioni giornaliere aumentavano sempre di più. Finché venne la vigilia del Giorno del Ringraziamento, e al grasso tacchino accadde qualcosa che non aveva assolutamente previsto…
Si tratta, in versione favolistica, della tradizionale argomentazione sull’inaffidabilità dell’induzione: se ogni giorno il mondo va in un certo modo, nulla ci può garantire che lo farà anche domani. L’imprevisto è sempre in agguato. Si dice normalmente che sia stato Hume a porre questa questione nella maniera più forte, anche se già se ne parlava ai tempi degli Scettici nell’antica Grecia.
Nelle dinamiche della Borsa questo fenomeno è evidente. I trend (ad es. in crescita) che ci autorizzano a prevedere una crescita anche domani possono essere smentiti da un evento improvviso che causa un crollo imprevisto. Ma oggi a questa dinamica si aggiunge l’effetto di ricorsività e velocità del web. Tutti coloro che speculano in borsa (diciamo il “parco buoi”) sono costantemente collegati a siti che più o meno uniformemente consigliano se comprare, tenere o vendere un titolo. Se tutto il mondo fa riferimento più o meno allo stesso dato, il fenomeno si autoconferma e si autoincrementa. In secondo luogo, tutti quelli che speculano in Borsa operano oramai direttamente con il PC collegato alla rete e possono fare moltissime operazioni in poco tempo. Grandi numeri, ricorsività, velocità: tutte caratteristiche tipiche dei sistemi complessi. Il risultato è che il fenomeno Borsa è isterico, ipersensibile, può cambiare in modo repentino e devastante.
Tutti pensano di prevedere il futuro sulla base di dati del passato e del presente che hanno a diposizione (‘induzione del tacchino, già sufficientemente dimostrata come inaffidabile da tutta l’epistemologia). Ma non si rendono conto che in realtà stanno essi stessi contribuendo a determinare il futuro che sperano o temono. Finché tutti continuano a pensare che convenga comprare, comprano e fanno accadere ciò che sperano, ovvero la crescita dei valori dei titoli. Ma se qualcosa fa invertire il meccanismo e tutti cominciano a vendere, fanno accadere ciò che temono.
Il tacchino si mette da solo nel forno.

mercoledì 14 gennaio 2009

38 Errori tipici


Esempi lampanti di errori in cui cadiamo più o meno tutti riguardano i nostri tentativi di previsione. Ad es., molti applicano malamente la teoria dei grandi numeri alle giocate del Lotto, con l’attesa spasmodica dei numeri ritardatari. Proverò a spiegarmi con un esempio semplice, legato a giocare a testa o croce con una monetina, per fare vedere che questa tendenza del nostro cervello ad ingannarsi è comune a tutti noi.
Partiamo da due affermazioni sulle quali vi chiedo se siete d’accordo:
a) se la moneta non è truccata, la sua struttura fisica determina che ci sono 50 probabilità su cento che esca croce e al 50 che esca testa
b) su un numero molto alto di giocate (tendente a infinito) le uscite saranno per il 50% testa e per il 50% croce (legge dei grandi numeri).
Se siete d’accordo su entrambe le affermazioni, siete nel giusto. Inoltre, le due affermazioni si confermano a vicenda.
Ora, supponiamo che nelle ultime sette giocate sia sempre uscita testa. La maggior parte di noi sarà portata a credere che ci siano più probabilità che esca croce. Se anche in questa ottava giocata la monetina si fermerà su testa, le nostre aspettative che esca croce aumenteranno ancora, e così via. Esse nascono dalla consapevolezza dell’affermazione (b).
Ma se ci pensate un attimo, non potete non ammettere che la moneta è sempre la stessa dell’affermazione (a): se la moneta non è truccata, la sua struttura fisica la può fare cadere al 50% su croce e al 50% su testa anche nella prossima giocata. Non è cambiato nulla nella sua struttura fisica, per effetto delle ultime otto giocate. Un'altra cosa che, se ci pensate un attimo, vi troverà d’accordo è che se in questo momento la moneta vola in alto per la nona giocata, essa non ha nessuna memoria delle giocate precedenti, siano esse state o no tutte su croce. Insomma, ad ogni giocata le possibilità sono quelle dell’affermazione (a) e attendersi qualcosa di diverso giocando cifre irragionevoli su “croce ritardataria” non è assolutamente ragionevole. Eppure è quello che fanno centinaia di migliaia di persona giocando al loto sui numeri in ritardo.

venerdì 9 gennaio 2009

37 Un cervello inadatto alla complessità


Questo blog ha iniziato parlando di complessità. Poi il filo dei ragionamenti ci ha portato a parlare di quel sistema complesso per eccellenza che è Internet.
Torniamo ora, a inizio 2009, ad occuparci per un poco del tema della complessità in relazione a come funziona il nostro cervello.
Da diversi anni, oramai, il Premio Nobel Herbert Simon ci ha chiarito che la mente umana non è strutturata per costruire visioni complete ed esaustive dei sistemi che osserva, e a maggior ragione di quelli nei quali vive. Difficilmente ci costruiamo una visione d’insieme, anzi possiamo dire che è impossibile. La ragione umana non è uno strumento “per elaborare e prevedere l’equilibrio generale dell’interso sistema mondo, o per cercare un potente modello generale che tenga conto di tutte le variabili”. Essa è piuttosto uno strumento per muoversi in piccole nicchie, per esplorare piccoli pezzi o singoli problemi. E lo fa utilizzando delle “euristiche” che funzionano abbastanza bene, ma che non hanno nulla di scientifico.

sabato 27 dicembre 2008

36 Innovazione e dono

Non basta pensare alla gratuità dell’investimento in ricerca. Occorre metterci dentro anche una certa dose di dono.
Mi riferisco a un filone di riflessioni che fanno capo prevalentemente alla rivista MAUSS e che da anni propongono il “terzo paradigma” (Caillè) del “dono” (Godbout) come terza via tra individualismo e collettivismo, tra liberismo e socialismo. Ma dove stavano gli esempi di questo antiutilitarismo fino a pochi anni fa? Solo nelle famiglie, nelle relazioni amicali e nelle minoritarie esperienze di mutua solidarietà e di volontariato. Oggi il web sta letteralmente esplodendo di software open-suorce, forum, blog, sistemi wiki in cui, senza troppo sforzo, si possono vedere esempi molto ampi del paradigma del dono. L’Open source ha generato molta innovazione e ritorni economici. I forum tematici hanno una professionalità media elevata. In essi ci si forma più che nei corsi di formazione.

lunedì 22 dicembre 2008

35 Innovazione e gratuità

All’inizio del XIX secolo, alcuni scienziati si dedicarono a ricercare i modelli matematici che potevano descrivere i… nodi! La loro unica motivazione era la curiosità. Ma un secolo dopo, senza che fosse in alcun modo possibile prevederlo, abbiamo scoperto che i loro modelli sono molto utili per combattere i virus, molti dei quali operano alterando la forma della molecola di DNA inducendo la formazione di una sorta di nodo (K. Devlin, Il gene della matematica, Longanesi, Milano, 2002).
Inutilità.
Gratuità.
Provate a ricercare e scoprire qualcosa per il puro gusto dell’esplorazione.
Per il puro gusto della bellezza (gratis in latino è la contrazione di gratiis, ablativo di gratia, bellezza).
Per il puro gusto del gioco (A. Peretti, Il dubbio di Amleto, il gioco come modo di pensare, sentire, agire, Ed. dell’Orso, Alessandria, 2001).
Mettete “in frigorifero” quella scoperta: la tireremo fuori al momento opportuno in cui si rivelerà utile, remunerativa.
Un’organizzazione dovrebbe avere la forza di investire un po’ delle sue risorse in attività gratuite, inutili. Creare un ufficio che si occupi di ricerca di base. Oppure stabilire che a chiunque nell’organizzazione è riconosciuta una certa percentuale di tempo per la ricerca pura. Pura nel senso che non deve dare conto del perché, del quanto vale. Il perché sta nel divertimento, nella sfida, nella bellezza. Ma ciò che oggi sembra non valere nulla, domani potrebbe essere preziosissimo. Come l’inutile teoria dei nodi.

lunedì 1 dicembre 2008

34 Internet ci rende stupidi? Forse no!

I-Brain, il nuovo libro del neuro-scienziato Gary Small (http://www.drgarysmall.com/ ) afferma senz’altro che internet sta cambiando i nostri cervelli, ma risponde negativamente alla domanda di Nicholas Carr che abbiamo citato nel blog 27: Internet ci rende stupidi? L’osservazione tramite risonanza magnetica del funzionamento del cervello di un gruppo di 24 volontari di età anziana dimostra che l’uso di internet stimola positivamente il cervello. Sono attive tutte le aree normalmente attive nella lettura di un libro (riguardano il linguaggio, la memoria, la vista). Ma sono attive anche altre aree che riguardano la scelta e il ragionamento strutturato.
Chi naviga, dunque, forse fa surf sulla superficie dei concetti e delle informazioni, come dice Nicholas Carr. Ma è anche vero che si muove in ipertesti complessi, tra i quali deve adottare strategie, scelte, valutazioni. E, infine, decidere se rispondere a una mail o alzare il telefono. O uscire a incontrare direttamente un amico. Si veda anche l’articolo su wordpress: http://mediterranei.wordpress.com/2008/10/29/se-internet-ti-cambia-il-cervello/

sabato 29 novembre 2008

33 Piccole speranze

Nel post n. 11 dicevo che il dubbio è l’antidoto contro il totalitarismo. Con più dubbi avremmo avuto meno lager e i gulag, meno inquisizioni e roghi. Ma rimaneva il dubbio sul dubbio, ben rappresentato dal commento ricevuto: il dubbio sarà anche un antidoto, ma distrugge, non costruisce. Tra mille dubbi non si combina più nulla. L’onesto metodologo del dubbio non saprebbe scegliere neanche se andare a destra o sinistra la mattina, appena uscito di casa. Il dubbio può essre paralizzante.
Dopo aver letto “Speranze” di Paolo Rossi (Il Mulino, 2008) posso correggere il tiro. Ciò che vaccina contro i Lager è la decisione di abbandonare la convinzione di essere proprietari della Verità con la V maiuscola. Non di grandi speranze, parla Rossi, ma di miti, dubbiose, ragionevoli speranze. Ma pur sempre tali. Il dubbio, in questa prospettiva, non impedisce la decisione, né scolora l’etica. però la presenta non come assoluta, ma locale, discutibile in senso letterale.

lunedì 24 novembre 2008

32 Basilio di Cesarea, non disprezzare la carne che invecchia

In un passo dell’Esameron, Basilio di Cesarea prende il mutare continuo della luna come occasione per riflettere sull’instabilità delle cose umane. Basilio visse nel quarto secolo dopo Cristo. Di lui si racconta che dopo un lungo viaggio presso le comunità ascetiche dell’oriente abbia deciso di regalare tutti i propri beni. Fondò una comunità monastica, organizzò ospizi ed ospedali.
“Così lo spettacolo della luna ci ammaestra sulle nostre condizioni; così, prendendo coscienza della rapida mutevolezza delle cose umane, non insuperbiremo della nostra prosperità, non ci allieteremo del potere, non ci esalteremo della nostra incerta ricchezza, non disprezzeremo la carne soggetta a questi cambiamenti, e ci prenderemo cura dell’anima, il cui bene è immutabile.”(1)
Naturalmente la riflessione sulla mutevolezza e la caducità non è nuova, attraversa tutta il pensiero umano. Sotto questo aspetto, queste parole non sono altro che l’ennesima formulazione del panta rei di Eraclito. Con un richiamo essenziale: “ci prenderemo cura dell’anima, il cui bene è immutabile”.
Ma più di tutto mi ha colpito la frase “non disprezzeremo la carne soggetta a questi cambiamenti”. Ha un valore notevole per la nostra cultura contemporanea, così poco disposta ad accettare l’invecchiamento e l’imbolsimento dei corpi. La chirurgia estetica, gli sport estremi, le automobili potenti: in mille modi cerchiamo di dire a noi stessi che non stiamo invecchiando. Il mito di un’eterna giovinezza è il desiderio tragico dei nostri giorni.

(1) Basilio di Cesarea, Esameron, in Il racconto della letteratura greca IV, a cura di G. Paduano, Zanichelli, Bologna, 1991

mercoledì 19 novembre 2008

31 Il cigno nero

Ho letto Il Cigno Nero di Nocholas Taleb (ed. Saggiatore). È un saggio che parla di come l’improbabile governa il mondo, e viene recensito come testo innovativo sulla teoria della conoscenza e sulle dinamiche dei sistemi complessi. Ma compratelo solo se desiderate farvi qualche risata. È una sequenza di battute divertenti molto british (anche se il suo autore è libanese). Dal punto di vista epistemologico è deludente. Dimostra bene come il nostro mondo sia poco prevedibile, e come le nostre interpretazioni siano dettate solo dal “senno di poi”. Ma, dopo averli più volte promessi, non fornisce i mezzi per affrontare l’imprevedibilità. Com’era prevedibile.

martedì 11 novembre 2008

30 Attacco alla neocorteccia

I meccanismi di cui ho parlato negli ultimi post sembrano indurre nelle società occidentali una crescente fuga dall'uso della razionalità. Con espressione un po’ scherzosa, Armando Massarenti dice che forse si tratta di un “complotto contro la corteccia cerebrale” e la sua utilizzazione, perché forse chi ha interesse a convincere le masse (la politica, la pubblicità) deve cercare di aggirare il pensiero critico.
Nel suo dialogo con Massarenti sui domenicali di marzo 2005 del Sole 24 Ore, Lamberto Maffei (Professore di neurobiologia alla Scuola Normale Superiore di Pisa e Direttore dell’Istituto di Neuroscienze del CNR) elenca alcune strategie che la politica e la pubblicità adottano per operare in questa direzione:
“1) Il messaggio deve arrivare all'interlocutore con la via sensoriale più potente e poiché nel cervello dell'uomo più del 50% dei neuroni risponde allo stimolo visivo non c'è nessuna sorpresa sul grande impatto a livello della comunicazione della televisione. In un mondo di ratti il grande comunicatore avrebbe probabilmente usato l'olfatto per dirigere i consumi dei suoi consimili su certi tipi di formaggio piuttosto che su certi altri.
2) Il messaggio deve trovare vie di ingresso già predisposte nel cervello dell'interlocutore; i messaggi ,fatti passare per le porte della sopravvivenza come sesso e cibo, sono sempre accolti senza proteste come del resto quelli che coinvolgono la sfera delle emozioni.”
Poiché l’ontogenesi ricapitola la filogenesi, la struttura funzionale del nostro cervello in qualche modo ripercorre l’evoluzione della nostra specie: dalle funzioni di base, vegetative, istintuali (che abbiamo in comune con tutti gli esseri vertebrati, ad esempio i rettili), a quelle emotive (che condividiamo con quasi tutti i mammiferi) a quelle più propriamente corticali (tipiche di alcuni primati e tipicamente dell’uomo). Le ultime sono quelle della razionalità e della critica. Chi ha interesse a riportarci al livello dei rettili?

lunedì 10 novembre 2008

29 Tutto si mischia?

Borges, nell'Aleph, racconta il timore che, chiudendo un libro, le parole si mischino tra loro. L’immagine non è solo fortemente poetica: evoca un disagio della nostra civiltà. Quello che ci possa sfuggire il controllo sui significati, che si possano perdere gli strumenti per decifrare la realtà.
Renata Mohlo, giornalista che si occupa di moda e arte, dice che “a furia di scardinare i significati e smontare le frasi per poi rimontarle, rivedere i singoli pezzi separati e ripetuti a vuoto, niente ha più il peso giusto, tutto equivale a tutto e i- simboli, le parole, i fatti, le immagini fluttuano in un limbo gelatinoso, non solo nelle nostre menti, ma intorno a noi. Frammenti di discorsi a un affollato party. Senza più alcun criterio si incrociano, si scontrano, si sovrappongono, si affiancano e si separano, producendo molta confusione. (…) È l'era della sconnessione del non collegamento. E paradossalmente è il frutto dell'eccedenza di comunicazione”.

domenica 9 novembre 2008

28 Semplicità e complessità

L’articolo di Nicholas Carr che ho citato nel post precedente ha scatenato in questi mesi un dibattito ricco di ramificazioni. Una di queste riguarda la complessità.
Mentre la complessità è diventata uno dei pezzi fondamentali del DNA della scienza contemporanea, sembra stare scomparendo nella consapevolezza del vivere quotidiano.
Leggere un libro ci costringe alla fatica, alla concentrazione, alla pazienza. Richiede tempo.
La lettura prevalente di oggi è superficiale, veloce, interrotta continuamente, spesso deviata e deviante, spesso ignara dei contesti e delle ramificazioni che abbiamo percorso.
Ma la complessità è una caratteristica dell’oggetto osservato o del soggetto osservante?
Perché se siamo nel secondo caso, ha ragione chi, come Carr, tira il segnale d’allarme: il nostro cervello, come il nostro linguaggio, si sta pericolosamente semplificando. Ciò non ci rende più capaci, ma più semplicistici, più superficiali. “Una volta –dice Carr- facevo il sub in un mare di parole. Adesso surfo la superficie.”
Ma se siamo nel primo dei due casi (la complessità è una caratteristica dell’oggetto osservato), potrebbe darsi che il nostro nuovo modo di muoverci tra i link sia un buon nuovo modo di rispondere alla sfida della complessità.

28 Semplicità e complessità

L’articolo di Nicholas Carr che ho citato nel post precedente ha scatenato in questi mesi un dibattito ricco di ramificazioni. Una di queste riguarda la complessità.
Mentre la complessità è diventata uno dei pezzi fondamentali del DNA della scienza contemporanea, sembra stare scomparendo nella consapevolezza del vivere quotidiano.
Leggere un libro ci costringe alla fatica, alla concentrazione, alla pazienza. Richiede tempo.
La lettura prevalente di oggi è superficiale, veloce, interrotta continuamente, spesso deviata e deviante, spesso ignara dei contesti e delle ramificazioni che abbiamo percorso.
Ma la complessità è una caratteristica dell’oggetto osservato o del soggetto osservante?
Perché se siamo nel secondo caso, ha ragione chi, come Carr, tira il segnale d’allarme: il nostro cervello, come il nostro linguaggio, si sta pericolosamente semplificando. Ciò non ci rende più capaci, ma più semplicistici, più superficiali. “Una volta –dice Carr- facevo il sub in un mare di parole. Adesso surfo la superficie.”
Ma se siamo nel primo dei due casi (la complessità è una caratteristica dell’oggetto osservato), potrebbe darsi che il nostro nuovo modo di muoverci tra i link sia un buon nuovo modo di rispondere alla sfida della complessità.

martedì 4 novembre 2008

27 Internet ci rende stupidi?

C’è più di una connessione tra la questione della complessità e le riflessioni su come funziona il cervello umano. Una di queste sta generando un dibattito interessante sui collegamenti tra il nostro cervello e l’uso di tecnologie nate relativamente da poco, come internet e i telefonini.
“Is Google making us stupid?” è il titolo di un bell’articolo di Nicholas Carr apparso su The Atlantic, rivista da consigliare. Ne ho parlato un po’ nel blog dedicato alle reti del capitale umano.
Lì ricordavo, ad esempio, come gli ipertesti ci stiano abituando a saltare da un rimando a una altro in una sorta di parossismo che forse distrugge l’attenzione. Anche i banner e i pop-up distolgono continuamente la nostra focalizzazione. In generale, la potenza dello scritto si sostituisce alla potenza del lettore. E così diminuisce al nostra capacità di concentrarci e di focalizzare l’attenzione. La velocità e brevità dei testi stanno cambiando (e molti dicono demolendo) il linguaggio della scrittura. Google o Wikipedia ci fanno risparmiare un sacco di tempo, ma sono un po’ come delle autostrade tutte in galleria: ci portano velocemente a destinazione, ma ci fanno perdere completamente il senso del territorio, il senso di orientamento, la consapevolezza di dove ci troviamo rispetto a ciò che c’è intorno. Nel suo articolo, Carr guarda a se stesso e si accorge di avere perso la capacità di concentrarsi, la pazienza, la determinazione che richiedono, ad esempio, la lettura di un testo lungo e complesso o la ricerca di un’informazione in modo approfondito e affidabile.
Probabilmente tutto questo sta accadendo. Stiamo perdendo certe capacità. Ma abbiamo guadagnato la disponibilità enorme e immediata di informazioni. E, se siamo capaci, abbiamo ampliato enormemente il nostro potenziale di rapporti.

domenica 2 novembre 2008

26 Costruttivismo

Sulla stessa scia, ma in una posizione ancora più radicale, si colloca l'altro grande epistemologo contemporaneo, Thomas Kuhn, il quale ci fa notare che una nuova spiegazione si afferma (grazie ad una "rivoluzione scientifica" che scardina la spiegazione precedente) perché appare più convincente, perché ottiene più consenso nella comunità scientifica.

Sia che ci si muova nella prospettiva neopositivistica di Popper, sia in quella post-positivistica di Kuhn, una convinzione l'abbiamo raggiunta: abbiamo sostituto la tradizionale visione della scienza che scopre, con la visione della scienza che inventa: la nostra conoscenza non è più una rappresentazione della realtà, ma una progettazione, un costrutto che genera ipotesi e leggi scientifiche la cui validità è legata (sia nella prospettiva razionalista di Popper, sia in quella consensualistica di Kuhn) al fatto di essere "adatte" di altre, in un vero senso evoluzionista.

Conoscere non è dunque scoprire, ma progettare, non esplorare, ma costruire universi.

A questo punto, non dobbiamo però credere che il progettista di cui stiamo parlando sia soltanto qualche straordinario scienziato. Progettista è l'osservatore del mondo. E, dunque, progettisti siamo noi tutti, tutti gli uomini che quotidianamente hanno a che fare con la complessità del loro mondo, con la complessità di lavorare, di crescere i propri figli, di distinguere il bene dal male, di prendere decisioni per il futuro.

lunedì 20 ottobre 2008

25 Colombo la inventò, Vespucci le diede un nome

Ho detto che Colombo inventò l'America. Per la verità Colombo inventò la possibilità di raggiungere le Indie andando a ovest anziché a est. E, messosi per strada, incontrò l’America. Non ebbe nemmeno la precisa idea di avere inventato un continente. Anche in questo alcune caratteristiche dell’epistemologia della complessità si ritrovano nella storia simbolica di Cristoforo: mettersi per strada con gli occhi bene aperti, con un’idea del cammino, ma sapendo che “il cammino si fa camminando” (Machado); mettersi per strada disposti a cogliere le biforcazioni possibili del nostro cammino. E portare le scoperte ad altri, magari a un Amerigo Vespucci che, venendo dopo e avvantaggiandosi della scoperta di Colombo, sarà in grado di dare un nome alla nuova realtà.

domenica 5 ottobre 2008

24 bis

Ho parlato un po’ di queste cose con un amico qualche giorno fa. Ecco cosa mi scrive.
Caro Mario,
come accennato ieri considera la seguente applicazione matematica:
Xs = A che moltiplica Xi (1-Xi)
dove A = costante, Xi = numero compreso tra 0 e 1
Una volta calcolato Xs, metti Xs al posto di Xi e ripeti la procedura fino ad ottenere una sequenza di Xs.
Es.: A = 2,4 Xi = 0,1 il risultato è Xs = 0,216
ripetendo la procedura con Xi = 0,216 si trova il nuovo Xs = 0,406
e così via...
Adesso ripeti lo stesso processo utilizzando oltre A = 2,4 anche A = 3,4 e poi A = 3,99 e porta in un grafico avente per ordinate Xs e per ascisse il numero delle operazioni e vedrai una cosa stupefacente: la stessa semplicissima applicazione con tre costanti vicine tra loro genera tre successioni di risultati rispettivamente costanti, periodici, caotici.
Morale per me è difficile attribuire questa circostanza al modo di funzionare del cervello umano e non ad una proprietà assoluta, universale, insita nell'applicazione ed indipendente dall'esistenza del genere umano.
Luigi

domenica 28 settembre 2008

24 Colombo inventò l’America

Ma tutto questo conduce forse a conclusioni pessimiste? Se non siamo sicuri che il progresso della scienza sia veramente il progresso dell’umanità, se non c’è più un punto di Archimede da cui osservare indisturbati il mondo, se le nostre capacità di previsione in sistemi complessi sono intrinsecamente limitate, se la Verità (con la V maiuscola) non esiste, dobbiamo rifugiarci nello scetticismo?
Io credo di no.
Ci sono molte alternative alla sensazione di incertezza che la complessità genera.
Una interessante consiste nl rivalutare la dimensione del soggetto che conosce, che osserva, che progetta la complessità.
Kant ha sancito questo slittamento da un'epistemologia della rappresentazione ad una epistemologia della progettazione, dell'invenzione. Egli osservò, in modo che è divenuto famoso, che l'intelletto umano non scopre le leggi di natura, ma le "prescrive" ad essa. Se gli scienziati credevano un tempo che le loro metodologie li portassero a scoprire le leggi presenti in natura, dopo Kant (e dopo la sistematizzazione che di questa intuizione abbiamo fatto infine grazie a Popper) nessuno di loro può più avere questa speranza: il processo della innovazione scientifica si basa sulla costruzione di nuove ipotesi che spiegano meglio, ma tale costruzione è, come dice la parola stessa, un atto di creazione, di innovazione, di invenzione. Buone e semplici maestre ci hanno insegnato a scuola la distinzione tra scoperte e invenzioni, spiegandoci che Cristoforo Colombo "scoprì" l'America e il signor Watt "inventò" la macchina a vapore. Oggi questa tradizionale distinzione è superata: le scoperte non esistono, o meglio, sono anch'esse invenzioni, che durano e reggono finché non interverrà qualcosa a contraddirle. In un passaggio famoso, Popper ci dice che lo stesso Cristoforo Colombo non scoprì l'America, la inventò!

giovedì 18 settembre 2008

23 Connotazione storica e sociale della verità

Un’altra acquisizione del nostro secolo è il fatto di concepire la verità scientifica come socialmente e storicamente connotata. Feyerabend fa notare che, dopo essere stata in passato la grande accusatrice di un sistema di verità imposte per fede (dalla chiesa e dalla filosofia metafisica) la scienza si è tramutata essa stessa, oggi, un sistema di fede e di potere (“il giudizio dello scienziato è accolto con la stessa reverenza con cui era accolto non troppo tempo fa quello di vescovi e cardinali”[1]). La sociologia della scienza ha affermato che il metodo scientifico non è un fatto asettico ed universale, ma connotato nell’ambiente sociale. Ciò vale per le macro-società, ed è risaputo. Ma vale anche per società locali, quali sono le Istituzioni nelle quali lo scienziato fa ricerca. Spesso questo non è ancora capito nelle aziende. In molte organizzazioni di ricerca legate all’industria il modello sotteso al metodo di ricerca è, a ben vedere, ancora quello tayloristico. E questo vale anche per le discipline umane: all’Isvor Fiat si parla di ingegnerizzazione della formazione! Così, nelle Università sulla ricerca si riverbera pesantemente il modello burocratico in cui pochi detengono il potere delle scelte e delle priorità
[1] P. Feyerabend, in Ian Hacking (a cura di) Rivoluzioni scientifiche, Laterza, 1989

giovedì 10 luglio 2008

22 La Fiat va dove vuole lei

L'applicazione di questo paradigma ad un sistema organizzativo (ad esempio un'azienda) ci dice che questi sistemi complessi sono costituzionalmente fuori dal controllo degli organi che apparentemente sono posti ai loro vertici per controllarli. Questo spiega dubbi che già avevamo ma che non riuscivamo a codificare, ad accettare.Per ogni Fiat c'è un Romiti, un Marchionne. Ma la Fiat va in buona parte dove vuole lei (e questo si nota specialmente nel lungo periodo), è un soggetto fortemente inerziale rispetto alla volontà di Romiti. La variabile dei ruoli di leadership non conta, non pesa. O, meglio, pesa in modo molto diverso dalla razionalità assoluta presupposta dalla maggior parte delle scuole di management, che tratteggiano situazioni in cui i dirigenti d'azienda analizzano scenari, decidono razionalmente sulla base di valutazioni costi/benefici, pianificano il futuro definendo modi, mezzi e tempi dell'evoluzione aziendale. noi sappiamo che non è così. Che la razionalità delle scelte, delle pianificazioni e dei controlli altro non è che un'illusionismo metodologico, una necessaria ipocrisia. Al contrario, i ruoli di leadership aziendali assomigliano molto di più a ruoli politici, che non governano nulla, che non decidono nulla, ma che servono a catalizzare il governo e le scelte collettive, che sono tutte spinte viscerali, provenienti dal basso

martedì 8 luglio 2008

21 Il crepuscolo della leadership

L'altro aspetto importante di questo slittamento epistemologico è il fatto che gli esseri collettivi si comportano in modo cibernetico senza che nessuna delle loro componenti abbia un decisivo ruolo di comando, di leadership. L'alveare elabora le informazioni provenienti dalle danze delle api esploratrici, ma la decisione è presa progressivamente in modo collettivo, potremmo dire "democratico" o per maggioranza. Quando lo sciame parte, prende la Regina, che segue del tutto inconsciamente. La stessa Regina non è tale per genetica o per altri motivi, ma "altro non è che una contadinella, sorella di sangue della stessa ape infermiera istruita (da chi?) a scegliere la sua larva, una larva ordinaria, e ad allevarla secondo una dieta di pappa reale capace di trasformare Cenerentola nella regina. Per quale strano fato viene scelta la larva che sarà una principessa? E chi sceglie colei che sceglie?" A queste domande non c'è risposta, ma non perché non l'abbiamo ancora trovata (prospettiva del moderno e della "bonifica") ma perché non c'è fato, non c'è logica razionale, non c'è chi sceglie, almeno al livello delle api: è l'alveare stesso in senso collettivo (e inconsapevole a livello individuale) che sceglie

martedì 17 giugno 2008

20 Mente collettiva

Un esempio dei nuovi paradigmi che possono emergere in questa prospettiva del “fuori controllo” è quello di super-organismo o mente collettiva. Questo concetto si è affermato negli ultimi decenni del secolo e presiede ai modelli proposti da molti scienziati in campi diversi. Tra essi forse il più famoso (tanto da essere divenuto uno standard anche per i telefilm di fantascienza) è il modello di Gaja di Lovelock (Jim E. Lovelock, Gaia, Nuove idee sull'ecologia, 1981, Bollati Boringhieri, Torino).
Una buona descrizione di questo modello è proposta da Kelly (Kevin Kelly, Out of Control, 1996, Apogeo, Milano). E' infatti agevole capire il paradigma seguendo la descrizione che egli fa dell'alveare.
L'idea è quella di considerare l'alveare come un soggetto vivente alla stessa stregua di un toro o un uccello o un uomo. E' difficile immaginare l'alveare come "soggetto", come individuo, poiché noi tendiamo a porre il livello di individualità sulle api, che sono i suoi componenti; ma alcune immagini proposte da Kelly ci possono aiutare. La prima è quella del momento in cui lo sciame delle api decide di cambiare casa ed abbandonare l'alveare in cui ha vissuto fino a quel momento. Allora l'alveare inizia ad agitarsi e a contorcersi, a gemere e a vibrare come se fosse posseduto, come un individuo in preda ad un delirio. Poi la sua bocca si dilata tremando e incomincia a sputar fuori le api. "Un turbinare di piccole volontà, simile ad un fantasma si materializza sopra la scatola dell'alveare. Cresce fino ad essere una piccola nube scura fatta di pura intenzione, opaca di vita. Spinto da un ronzio incredibile lo spirito lentamente si solleva verso il cielo, lasciando dietro di sé la scatola vuota." Citando Rudolf Steiner, Kelly conclude che il tutto assomiglia proprio all'anima umana che lascia il corpo.
Ma la nostra capacità di "vedere" l'organismo collettivo cresce probabilmente se ci capita di avere esperienze come quella che Kelly (apicultore per hobby) ci racconta: "Un autunno ho rimosso un alveare dall'interno di un albero [...]. Gli insetti riempivano una cavità grande quanto me [...] e tutti gli insetti erano in casa [...]. Alla fine sprofondai la mano in quell'agglomerato di favi. Caldissimo! Almeno trentacinque gradi. Sovraffollato da almeno centomila insetti a sangue freddo, l'alveare era diventato un organismo a sangue caldo [...]. Mi sentii nello stomaco come se avessi messo la mano nelle interiora di un animale morente."
Il valore aggiunto di questa visione è lo slittamento del concetto di sistema cibernetico dal controllo razionale (il cogito cartesiano, che noi collochiamo a livello di individuo (umano)) al controllo collettivo.
Da questa prospettiva, non è vero che non c'è più controllo, ma il controllo cambia di livello e noi -individui componenti di una mene collettiva- non possiamo più leggerlo, decodificarlo, governarlo a causa dell'applicazione stessa del teorema di Gödel.L'alveare, lo sciame, lo stormo si comportano in modo cibernetico, ma secondo le tipiche risposte degli organismi all'ambiente: risposte essenzialmente di sopravvivenza, di ricerca del cibo, di riproduzione e di lenta evoluzione

sabato 7 giugno 2008

19 Fuori controllo

Un sistema complesso è tale anche nelle nostre intuizioni quotidiane, spesso perché ci testimonia un certo livello di caos che non riusciamo a dirimere, a ridurre a qualcosa di più semplice e quindi di razionale per i nostri schemi di lettura di esseri umani; l’irriducibile componente del caos, del caso, del disordine è un altro dei punti che l’epistemologia della complessità accetta e valorizza; il caso è divenuto nella scienza contemporanea una dichiarazione di irriducibilità algoritmica.
I sistemi complessi devono essere almeno parzialmente “fuori controllo”, per poter essere intelligenti.
Quella del controllo, infatti, è una delle forme del mito di assolutezza che ha governato il moderno. Uno degli scenari epistemologici del postmoderno è quello della perdita del controllo nei sistemi complessi.
Il moderno credeva fermamente che fosse possibile controllare sistemi economici, sociali, politici. Nel ventesimo secolo eventi storici sconvolgenti ci hanno oramai convinto che i principali sistemi che concretamente interpretano il concetto di complesso (l'economia, la politica, la società, i mass media, Internet) sono più spesso fuori che dentro al controllo dei governi. Anche quando un governo tenta di imporre dei correttivi, essi sembrano interventi tardivi e insufficienti: qualcosa sfugge continuamente e il comportamento collettivo genera continuamente degli imprevisti. Questo per molti costituisce la follia organizzativa dei nostri tempi, la decadenza di una società complessa sull'orlo del collasso.Ma non c'è dubbio che un atteggiamento "pessimista" di fronte a questa realtà è tipico di chi ancora tiene un piede nel moderno. Siamo consapevoli di queste situazioni, ma non riusciamo ad accettarle, a vedervi nulla di positivo

domenica 1 giugno 2008

18 Autopoiesi

Quest’ultima idea di autonomia ha molte versioni nelle diverse scienze cognitive, ma probabilmente la sua interpretazione più famosa e interessante è quella del concetto di autopoiesi nel lavoro di due biologi come Humberto Maturana e Francisco Varela, che nei loro studi sui sistemi biologici viventi anche piuttosto semplici notano la presenza di questa fondamentale ricerca di equilibrio tra apertura (eteronomia) e chiusura (autonomia) e la risolvono proponendo il concetto che i dati ambientali sono sostanzialmente vissuti dal sistema come perturbazioni , intrinsecamente non istruttive: “esse possono innescare, ma non determinare il corso della trasformazione” e quindi la risposta intelligente alla sfida ambientale; cosa determina la trasformazione? le caratteristiche strutturali interne del sistema, che ha variabili e processi che si collegano e si influenzano a vicenda in un complesso meccanismo interno che Varela paragona ad una sorta di bricolage; queste interazioni sono attivate dall’ambiente, ma non determinate direttamente da esso; il loro risultato dipende dalle caratteristiche che risiedono “non già nella natura della perturbazione che le ha innescate, ma nella maniera in cui la struttura [interna del sistema] produce delle compensazioni” che sono effetto del suo paesaggio interno; autopoiesi indica proprio questo: un livello minimo necessario di chiusura che permette la risposta autonoma, pur in un sistema che deve essere aperto

venerdì 23 maggio 2008

17 Ancora di vincoli e opportunità

Un terzo esempio applicativo di questa valorizzazione dei limiti è quanto ho già detto nel post 14 a proposito dei confini dei sistemi chiusi; mi sembra interessante fare notare la differenza tra “chiuso” e “isolato”: negli anni sessanta si è insistito molto sull’importanza dell’apertura del sistema rispetto al suo ambiente, in assenza della quale abbiamo sistemi non intelligenti, non in grado di imparare, di rispondere alle sfide ambientali (questo vale per un essere vivente come per un’azienda); tutavia, aperto non è in questo caso il contrario di chiuso, ma di isolato: un sistema intelligente è aperto nel senso di non isolato, ma chiuso nel senso di dotato di una sua identità e suoi confini rispetto all’ambiente, di una sua autonomia;Il vincolo e l’opportunità non sono più due termini in antitesi. Nel vincolo può risiedere la possibilità, come ci fanno notare Ilya Prigogine e Isabelle Stengers parlando delle strutture genetiche degli animali (Prigogine, Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza. Eunaudi, Torino, 1981). Senza un codice che limita il mutamento non potremmo avere evoluzione.

giovedì 15 maggio 2008

16 Vincolo come opportunità

In generale, è il concetto stesso di limitatezza che, in antitesi con la concezione tradizionale, diviene condizione positiva e costruttiva per la nostra conoscenza; parlo del presentarsi di un nuovo valore epistemologico del finito, non più negativo, ma consapevole e quindi costruttivo; è questo un fatto che, come ho già avuto modo di dire, ritengo provenire dalla riflessione del circolo ermeneutico di Heidegger: la consapevolezza dei nostri limiti e dei nostri pre-giudizi è la vera molla per la crescita della nostra conoscenza.
Un primo esempio applicativo di questa concezione costruttivista del limite sta nella rivalutazione che, a partire da Heidegger, fa Gadamer della concezione di pre-giudizio, di cui abbiamo parlato nel post 11: la coscienza dell’inevitabilità dei nostri pregiudizi è il miglior anticorpo contro i totalitarismi, le dittature, gli integralismi.
Un secondo esempio applicativo è rappresentato dal fatto che le nuove metodiche della scienza si stanno orientando alla valorizzazione di ciò che è individuale, locale, idiosincratico, storico e non eterno.

lunedì 5 maggio 2008

15 Interdisciplinarità

La perdita del punto di vista privilegiato e l'arbitrarietà dei confini dei sistemi sanciscono lo statuto della molteplicità dei punti di vista possibili con i quali si può osservare uno stesso tema: ne deriva il crollo del mito della specializzazione, o meglio l'affiancamento all'esigenza di specializzazione disciplinare dell'esigenza di multidisciplinarietà e interdisciplinarità; il primo grande esperimento multidisciplinare fu probabilmente quello della cibernetica iniziato da Norbert Wiener negli anni Quaranta, che portò attorno a un unico tavolo di discussione informatici, linguisti, psicologi, biologi, matematici; ognuno di loro era un grande specialista della propria disciplina; Wiener, però, era l'unico specialista (o non-specialista) interdisciplinare, in grado cioè di parlare tutti i linguaggi, di fungere da traduttore, da facilitatore della comunicazione. In effetti, già Popper iniziava le sue lezioni sul metodo della ricerca scientifica affermando che "il metodo scientifico non esiste [...] perché le discipline non esistono" (K.R. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica, Il Saggiatore, Milano ). E Morin traccia la propria speranza di riuscire, con l'epistemologia della complessità, a "rendere conto delle articolazioni che sono spezzate dai tagli fra discipline [...] In realtà l'aspirazione alla complessità tende alla conoscenza multidimensionale” (E. Morin, citato in Bocchi, Ceruti a cura di, La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano ).

lunedì 28 aprile 2008

14 Il paradosso dei confini

Lo stesso concetto di sistema è relativo; i suoi confini rispetto all'ambiente sono sempre arbitrari, tracciati simbolicamente dall'osservatore.
È un concetto ben noto. Ovunque si tracci un confine (geografico, sociale, economico, concettuale) le popolazioni prossime al confine stesso sono in situazioni di discontinuità paradossale. Un altoatesino si sente (ed è) assai più prossimo ad un austriaco che a un siciliano. La definizione delle aree a declino industriale per i finanziamenti europei ha creato paradossi dei confini come questo: un’azienda che ha la propria sede sul lato sinistro di un Corso Regina Margherita a Torino può accedere ai finanziamenti e il suo dirimpettaio del lato destro (distante pochi metri e in tutto e per tutto simile) no.
Ma la sua conseguenza più innovativa dell’affermare la relatività dei confini è legata al fatto che la "chiusura" sistemica diviene almeno altrettanto importante dell' "apertura" del sistema, perché è sinonimo della sua identità. Dopo anni di prediche ed enfasi sull’importanza dell’apertura all’ambiente, l’epistemologia delle scienze umane comincia a recuperare il valore di un certo grado di chiusura. Come individuo in un gruppo o come sistema in un sovra-sistema io ho bisogno di un certo livello di confine, di chiusura per non perdere la mia identità, per affermare un mio “io”.
Si noterà che in questa prospettiva emerge la differenza, che riprenderò, tra chiusura (positiva) e isolamento (negativo). Ciò contro cui ha combattuto l’approccio sistemico in sociologia e psicologia è l’isolamento, non la chiusura.

venerdì 18 aprile 2008

13 LE SCIENZE INESATTE

Mentre le scienze umane facevano i conti con la circolarità osservatore/osservato, accadevano cose inaudite proprio nel beato mondo delle scienze esatte: le previsioni newtoniane rispetto all'evoluzione dei pianeti incominciavano a mostrare alcune piccole pecche che, come crepe in una diga, si andavano piano piano ingrossando.
D'altro canto, comparivano sulla scena studi e teorie come quella di Einstein ("relatività"), di Boltzmann ("entropia") e Heisenberg ("indeterminazione"): il mondo certo della fisica (la più certa delle discipline positivistiche) si mostrava invece incerto ab imis fondamentis . Divenivano incerti proprio i concetti fondamentali che una volta erano scontatamente dati per certi, come quelli di spazio, di tempo, di energia, di osservabilità.
Accadde dunque un fenomeno impensabile si tempi del povero Comte, che aveva passato tutta la propria vita a cercare di dimostrare che la sociologia, benché si occupi di quell'oggetto incerto che è l'uomo, può essere scienza certa, in grado di dire e predire; aveva cercato di dimostrare che il sociologo, benché sia sempre un uomo che riflette sull'umanità -e dunque su se stesso- può evitare i pregiudizi, la soggettività.
Accadde infatti non già che le discipline umanistiche divennero esatte, ma che quelle esatte (la fisica, la chimica, l'ingegneria, ecc.) divennero -o meglio si riconobbero- come inesatte. E da questa straordinaria (e ancora oggi da molti rifiutata, in una sorta di strenua difesa) presa di coscienza esse derivarono la necessità di volgere l'attenzione agli apparati di ricerca che le discipline umanistiche (invischiate nel problema dell'imprecisione e dell'incertezza da sempre) avevano elaborato.
Il mito della modernità venne abbandonato, perché:
a - nel momento in cui osserva, in cui conduce un esperimento, lo scienziato sta già modificando quella realtà che in sua assenza era sicuramente diversa (ma egli non potrà mai sapere come); ad esempio, il principio di indeterminazione di Heisenberg afferma che è impossibile determinare contemporaneamente posizione e velocità di una particella elementare con una precisione superiore ad un certo limite; una delle ragioni di questo limite (che dipende dalla costante di Planck) è legata al fatto che nel momento in cui osservo una particella io letteralmente la "bombardo" e dunque la sposto, la modifico;
b - non esiste un punto di osservazione neutrale, lo scienziato osserva sempre a partire dalle proprie pre-conoscenze, dai propri pre-giudizi, perché egli è un uomo che "esiste nel mondo" (Dasein) e in quel mondo è andato a scuola, ha elaborato le proprie basi di conoscenza; infiniti esempi possono essere condotti su questo punto: quante volte gli studiosi hanno osservato il comparire di certe muffe, di certe fermentazioni in certe condizioni? eppure solo Fleming scoprì la penicillina nel 1928, perché aveva il back-ground di studi e di conoscenze del suo tempo, che gli permise di com-prendere ciò che osservava sotto una luce nuova, e quindi di elaborare una teoria interpretativa.

venerdì 11 aprile 2008

12 IL SELVAGGIO E L’ESPLORATORE

E mentre questo scarto fortissimo di prospettiva accadeva in filosofia, con Heisenberg entravamo in pieno nella scienza post-moderna.
L'idea centrale della scienza moderna era infatti molto diversa e poggiava sulla certezza che vi fosse la possibilità di osservare il mondo da un punto di vista distaccato, asettico. Lo scienziato conduce un esperimento, osserva l'oggetto del suo esperimento senza influenzarlo e senza esserne influenzato. Lo scienziato è neutrale. L'esperimento "parla" in modo oggettivo e questo linguaggio oggettivo, inequivocabile, delle cose è perfettamente formalizzabile dalla matematica.
Gli studiosi delle discipline umanistiche, invece, si erano accorti da tempo che le cose non potevano andare così nel loro caso: lo psicologo con il suo paziente, l'antropologo con la sua tribù, il sociologo con la sua società non riuscivano a garantire questa asetticità, questa separatezza tra osservatore ed osservato, questa certezza matematica. E infatti, in piena sbornia razionalista e modernista, la sociologia nacque nel Settecento (con A. Comte, che non fu certo il primo sociologo, ma certo il primo ad autodefinirsi tale, identificando una disciplina autonoma) con un vero e proprio "complesso di inferiorità" nei confronti di quelle branche della conoscenza che i positivisti esaltavano come "scienze esatte": la fisica (specialmente la meccanica), la biologia, la chimica, la matematica, e così via. La rappresentazione più potente di questa idea di scienza moderna "esatta" era senz'altro la teoria di Newton, con la sua eleganza onnicomprensiva.
Ma, col tempo, quel complesso di inferiorità è divenuto consapevolezza della diversità e occasione positiva di elaborazione di metodi di intervento che facessero i conti con il circolo ermeneutico. Prendiamo il caso dell'antropologia culturale, cioè di quella disciplina che studia le culture dei vari gruppi umani; essa iniziò a studiare le caratteristiche fisiche e organiche dei vari gruppi razziali (oggi questi studi vengono prevalentemente indicati con il termine di "antropologia fisica"); sviluppò poi tutta una branca che si occupava dello studio dei fenomeni sociali e culturali delle popolazioni primitive (oggi questi studi vngono spesso distinti con il termine di etnologia); più di recente essa ha allargato il campo della suua indagine fino a comprendere lo studio di tutti i fenomeni culturali (riti, miti, simboli, tabù, ecc.) di un gruppo umano, sia esso una popolazione o un quartiere o una squadra di calcio o un'azienda. Il sistema di indagine dell'altropologia è tipicamente basato sulla presenza dello scienziato all'interno della popolazione che osserva. Ma fu chiaro fin da subito che questa sua presenza non poteva garantire l'asetticità dell'osservazione. Nel momento stesso in cui il nostro antico antropologo atterrava con il suo aereo mono-elica tra i membri di una tribù della giungla del Borneo, ne scendeva vestito di tutto punto, e magari si acendeva una sigaretta, egli aveva già di fatto e irrimediabilmente cambiato quella tribù: il soggetto dell'osservazione aveva modificato l'oggetto, in modo irreversibile. Così, l'antropologia culturale imparò a tenere conto di questa prospettiva che integrava lo scienziato nella società e cultura sociale oggetto della sua osservazione ed elaborò metodi di ricerca specifici, come ad esempio quello basato sul concetto di osservazione partecipante, poi esportato in tutte le discipline umanistiche. Un altro caso importante è rappresentato dalla psicanalisi, che fondò tutta la propria forza nell'intepretazione del linguaggio (la medicina delle parole). L'inconscio è parola, ci ha dimostrato Freud, l'Es parla ("ça parle") ci ha detto Lacan. Dal canto suo, tra le altre cose è interessante notare come la sociologia abbia spostato progressivamente il suo tiro dal calcolo di certezza al calcolo di probabilità.

mercoledì 9 aprile 2008

11 IL DUBBIO COME VACCINO CONTRO L’INTEGRALISMO

Il circolo ermeneutico nell'ambito dell'interpretazione di cui ho parlato nel post precedente è un'intuizione geniale. Lo potremmo definire un collegamento ricorsivo di cui il famoso anello di Moebius è la rappresentazione grafica.
Una versione più complessa del circolo ermeneutico è costituita dal punto in cui Heidegger sostiene che la nostra conoscenza del mondo non parte dal nulla (la vecchia teoria della "tabula rasa"), ma è sempre l'articolazione, lo sviluppo di una pre-comprensione originaria, per cui nessuno può sperare di entrare in rapporto con la realtà scevro da pre-supposti e pre-giudizi. Ma questa considerazione, che per le filosofie precedenti era portatrice di pessimismo e sanciva la necessità di combattere questi pregiudizi, assume in Heidegger una dimensione per un certo verso positiva, poiché, una volta che se ne è consapevoli, essa costituisce lo scenario che permette la conoscenza; una volta che se ne è cosapevoli, essa abbatte il mito delle certezze (in nome delle quali troppi roghi, troppi lager l'uomo ha costruito) e apre la porta al dubbio, al legittimo dubbio, all'onesto dubbio, al dubbio che crea, che lascia aperte le porte del dialogo, che non chiude mai fino in fondo i ragionamenti, che non genera ortodossie, non genera dittature. Gadamer ha approfondito e portato alle estreme conseguenze questa idea del pregiudizio, costruttivo quando consapevole.

domenica 6 aprile 2008

10 LA PERDITA DEL PUNTO DI ARCHIMEDE

Come è noto, si racconta che Archimede avesse detto la famosa frase "datemi un punto d'appoggio e vi solleverò il mondo". Naturalmente, facendo egli stesso parte del mondo, non poteva avere quel punto d'appoggio su cui fare leva. Il punto di Archimede è divenuto dunque il simbolo del punto di vista privilegiato, esterno al sistema, asettico, onnicomprensivo, da cui gli scienziati della scienza classica hanno cercato di condurre (o hanno affermato di condurre) le loro osservazioni.
Il "punto di Archimede" non esiste.
Esso va inteso sia come legge eterna e necessaria, sia come punto di osservazione asettico e non coinvolto; dire che tale punto privilegiato non esiste significa affermare che l'osservatore è coinvolto nel sistema di osservazione con l'oggetto osservato, in una ricorsività ineludibile: osservatore ed osservato si influenzano a vicenda. Dopo secoli di sterili ricerche del "punto archimedico", oggi l'osservatore viene reintegrato nel sistema che osserva. Questo fatto, che chiamiamo ricorsività, caratterizza oggi tutta l'epistemologia e tutte le scienze fisiche, naturali e sociali.
Questa ricorvità tra osservatore e osservato, tra soggetto e oggetto della conoscenza è oggi talmente forte, come convinzione, da portare molti metodologi a proporre di abbandonare definitivamente i termini stessi di osservatore ed osservato, di soggetto ed oggetto, che presuppongono una gerarchia, una priorità che non esistono in natura e sono state solo il frutto della nostra prospettiva antropocentrica.
Nel famosissimo paragrafo 32 di Essere e Tempo, Heidegger analizza il cosiddetto "circolo ermeneutico".
Una delle versioni del circolo ermeneutico (probabilmente la più famosa, ma anche la meno complessa) è proprio quella dell'ambivalenza e ricorsività che intercorre tra un osservatore e l'oggetto della sua osservazione. L'oggetto della conoscenza influenza il soggetto (infatti gli fornisce informazione), ma anche il soggetto influenza l'oggetto (infatti lo modifica, con il proprio intervento o con la propria interpretazione). E questo in un circolo senza inizio e senza fine. Heidegger diceva queste cose quando già il fenomeno era ben chiaro nel caso delle scienze umane, ma prima che all'umanità fossero chiare le scoperte di Heisenberg sul fatto che le cose funzionano così anche in fisica (principio di indeterminazione).

giovedì 3 aprile 2008

9 IL FILO DI LANA SI SPOSTA IN AVANTI

Possiamo dire, sintetizzando, che la concezione tradizionale della scienza è stata quella dell'esplorazione e della bonifica di un cosmo visto come meccanicamente ordinato (Keplero, Newton): di fronte ad un universo da conoscere, la scienza (attraverso esperimenti, leggi, invenzioni) si muove come un esploratore che progressivamente sposta in avanti il confine tra terra conosciuta e terra incognita. La parte conosciuta aumenta, quella sconosciuta diminuisce.
E' un processo asintotico di avvicinamento progressivo alla verità. C’è un filo di lana che sarò raggiunto alla fine della corsa: sarà il momento in cui avremo capito tutto.
Ma se questa verità non esistesse nella forma così armonica come noi ce la immaginiamo (auspichiamo)? Se non fosse unica ma molteplice, non certa ma cangiante e disordinata? Se il filo di lana non esistesse?
In effetti, nel XIX secolo fa la sua irruzione nel panorama scientifico la realtà del disordine:
• il concetto di entropia del secondo principio della termodinamica di Boltzmann
• quello di relatività di Einstein
• quello di indeterminazione di Eisenberg
• il quanto di energìa di Planck
costruiscono un panorama di "disordine costitutivo" alle basi fondamentali dell'universo.
Il risultato è un capovolgimento della logica asintotica: ora il percorso della scienza sembra una gara in cui il traguardo si sposta in avanti mentre corriamo. Ad ogni scoperta (aumento della conoscenza) corrisponde l'apertura di nuove incognite (aumento dell'ignoranza).
La sfida della complessità si presenta oggi dunque come la necessità di fare i conti con oggetti della nostra attività che sono per definizione imprevedibili, cangianti, caotici.

mercoledì 2 aprile 2008

8 ANTIMECCANICISMO

Abbiamo visto che ci sono due livelli di concezione della complessità: uno riguarda la grande quantità di variabili in gioco (più che complessità potremmo parlare di complicazione); il secondo individua la complessità nel fatto che, in un sistema, abbiamo sempre una parte che sfugge al controllo, alla previsione, alla modellazione.
Possiamo dire che questo livello è una grande novità del nostro secolo, e celebra definitivamente il crollo del mito della razionalità totale, della certezza, dell'onnicomprensività, della predittività assoluta della scienza: un universo incerto si delinea per tutte le branche della conoscenza.
A questo livello, quello della complessità è un approccio antimeccanicista e olista che in modo più o meno consapevole accomuna in modo trasversale studi come, ad esempio, quelli sul concetto di organizzazione di W.R. Ashby, sulla teoria dei sistemi osservanti di H. Von Foerster, sulla cibernetica di N. Wiener, sull’autopoiesi nei sistemi biologici di H. Maturana e F. Varela, sull’ecologia della mente di G. Bateson, sull’epistemologia genetica di J. Piaget, sull’ecologia della Terra (“Gaja”) di J. Lovelock, sui sistemi sociali chiusi di N. Luhmann, sull’olismo epistemologico di E. Morin, e molti altri.
Noi oggi chiamiamo “complessità” proprio il comune terreno epistemologico, la comune sfida che queste diverse discipline stanno affrontando, cambiando radicalmente il proprio modo di porsi di fronte ai problemi, rispetto alla tradizione scientifica classica.

domenica 30 marzo 2008

7 QUALCOSA SEMPRE SFUGGE

Dunque della complessità non si può dare alcune definizione?
Non credo, e vorrei tentare almeno di segnalare alcuni punti che mi sembrano utili per diradare un po’ le nebbie attorno ad un concetto che a volte è rimasto colpevolmente nel vago.
Intanto, occorre dire che vi sono due diversi livelli a cui si può tentare di spiegare cosa significa complessità nell’epistemologia contemporanea.
Il primo livello riguarda il fatto che tutte le scienze contemporanee hanno incominciato, quale prima quale dopo, a ragionare e a lavorare con approcci e concetti di tipo sistemico. I sistemi sono divenuti oggetto delle analisi e delle progettazioni in campi diversi, come la biologia, la psicologia, la sociologia, l’ingegneria, la linguistica, l’economia, la politica, la fisica, la matematica, l’ecologia, la medicina, la chimica.
E ben presto questi sistemi hanno cominciato a manifestarsi, mano a mano che se approfondivano le osservazioni, sempre più complessi, nel senso della grande quantità, diversità e correlazione delle variabili che li costituiscono.
Questo è il primo concetto, il più banale, di complessità.
Ma esso implica direttamente il secondo livello, attinente alla difficoltà, per l’uomo, di ridurre questi sistemi complessi in proprio potere con operazioni semplici; l’uomo ha dovuto osservare che, mano a mano che il suo intervento su di essi aumentava, tali sistemi presentavano sempre qualche cosa di sfuggente, di ulteriore, una nuova frontiera, un comportamento imprevisto.
Questo è il secondo e più interessante livello cui si può tentare di spiegare cos’è la complessità.

giovedì 27 marzo 2008

6. LA SFIDA DELLA COMPLESSITÀ

Dopo qualche spunto sull'embodied mind, iniziamo oggi un percorso sulla complessità.
Quello della complessità è da alcuni considerato un insieme di approcci sufficientemente coerente da potere parlare, se non proprio di una scuola, quanto meno di una sfida comune ad una serie di epistemologi e scienziati contemporanei. Da questo punto di vista, avrebbe senso collocare, in una sorta di storia dell’epistemologia, l’approccio della complessità come uno dei più recenti esiti, dopo scuole più antiche, come quella classica o quella idealistica, quella spiritualistica e quella positivista, neopositivista e post-positivista.
Noi preferiamo considerare quella della complessità una questione di fondo dell’epistemologia, una “sfida”, come giustamente la definiscono Bocchi e Ceruti nella raccolta di saggi da loro curata (La sfida della complessità, 1985, Feltrinelli) che in buona misura ha costituito il più significativo punto di riferimento di questo approccio in Italia.
Per capire di quale questione si tratti dovremmo preliminarmente cercare una definizione di complessità. Eppure proprio uno dei grandi maestri di questa sfida, Edgar Morin, ci avverte che “vi sono due difficoltà preliminari”, la prima legata al fatto che “il termine non possiede uno statuto epistemologico”, mentre la seconda “è di ordine semantico. Se si potesse definire la complessità in maniera chiara, ne verrebbe evidentemente che il termine non sarebbe più complesso.”

domenica 2 marzo 2008

5. APPRENDIMENTO EMOZIONALE

È dimostrato che un apprendimento duraturo è quello che si fonda non solo su una comprensione intellettuale, ma anche e soprattutto su un’esperienza emotiva.
Lo sapevano già gli antichi, come testimoniano le più lontane tecniche menmoniche. E lo sa ognuno di noi: i ricordi più forti e intramontabili sono prevalentemente ricordi di emozioni.
Il nostro cervello è un vero “radar” emotivo.
Vi è un luogo della nostra civiltà in cui fortemente crescono le emozioni: l’arte.
Il nostro gruppo usa il metodo di apprendimento emozionale, che si fonda sull’uso dell’arte. In particolare:
- proiezioni di opere d’arte figurativa (quadri e sculture)
- proiezioni di selezioni di film
- ascolto di musica
- lettura comune di brani di testi poetici, letterari.
Seguono naturalmente: discussioni e estrazione induttiva di insegnamenti generali.

domenica 24 febbraio 2008

4. FORMAZIONE CONVIVIALE

Dov’è che le persone parlano di più e sono più vere? Attorno a un tavolo su cui ci sia almeno un po’ di pane e un po’ di vino.
Il pane si può produrre, portando i necessari ingredienti, impastando e cuocendo assieme. In fondo bastano due o tre fornetti.
Nel capitolo XCIV di Moby Dick, Melville ci racconta un’esperienza significativa che riguarda un’attività simile all’impastare, descrivendo come la manipolazione dello spermaceti (1) porti lentamente a generare nella mente pensieri di serenità e fratellanza. È una splendida rappresentazione ante-litteram della teoria dell’embodied mind.
“Si era raffreddato e cristallizzato a tal punto, che quando con parecchi altri mi sedetti davanti a un gran bagno costantiniano di questo spermaceti, lo trovai stranamente rappreso in grumi che nuotavano qua e là nella parte liquida.
Era nostro compito spremere questi grumi per farli tornare fluidi. Un compito dolce e mellifluo! Non c'è da meravigliarsi che anticamente questo spermaceti fosse un cosmetico così pregiato. Era un tale purificatore e dolcificatore! Un tale rinfrescante, un emolliente così delizioso! Ci avevo tenuto dentro le mani pochi minuti, e già mi sentivo le dita come anguille che cominciavano, per così dire, a serpeggiare e torcersi a spirale.
Mentre sedevo lì comodamente sul tavolato, con le gambe incrociate, dopo i duri sforzi all'argano, sotto un quieto cielo azzurro, e la nave con le sue vele indolenti scivolava innanzi con tanta serenità; mentre tuffavo le mani tra quei soavi, morbidi globuli di tessuti infiltrati, formatisi quasi al momento, ed essi si frantumavano oleosi tra le dita e liberavano tutta la loro abbondanza, come grappoli d'uva ben matura il loro vino; mentre annusavo quell'aroma incontaminato, che veramente e letteralmente è come il profumo delle violette a primavera, vi giuro che per un tratto vissi come in una prateria muschiata, dimenticai tutto del nostro terribile giuramento, me ne lavai le mani e il cuore in quello sperma ineffabile, e quasi cominciai a credere alla vecchia superstizione di Paracelso, che quell'olio abbia una rara virtù di calmare il calore dell'ira. Bagnandomi in quel bagno, mi sentivo divinamente libero da ogni desiderio di male, da ogni petulanza o malizia di qualsiasi sorta.
Spremi! spremi! spremi per tutta la mattina; spremetti quell'olio finché mi sentii sciogliere quasi con esso,
spremetti quell'olio finché mi prese una strana sorta d'insania, e mi trovai senza volerlo a spremere in esso le mani dei compagni, scambiandole per i globuli gentili. Un così abbondante, affettuoso, amichevole e amoroso sentimento creava quell'occupazione, che alla fine io stringevo di continuo le loro mani e li fissavo negli occhi con uno sguardo tenero,quasi a dire: Oh miei diletti simili, perché continuare a nutrire rancori sociali o a sentire il più lieve malumore o invidia?
Su, stringiamoci le mani tutti in giro, anzi spremiamoci l'uno nell'altro, spremiamoci universalmente nel latte stesso e nello spermaceti della bontà.
Potessi spremere per sempre quello spermaceti! Perché ora, che per molte e ripetute esperienze mi sono resoconto che in ogni caso, alla fine, l'uomo deve abbassare o per lo meno trasferire la sua idea della felicità che si può raggiungere, non collocandola in qualche zona dell'intelletto o della fantasia ma nella moglie, nel cuore, nel letto, nella tavola, nella sella, nel focolare, nel proprio paese; ora che ho capito tutto questo sono pronto a spremere la tinozza in eterno. Nelle mie pensose visioni notturne ho visto lunghe file di angeli in paradiso, ciascuno con le mani in una giara di spermaceti.”

(1) Lo spermaceti era molto usato in passato per fabbricare candele e unguenti vari. Fino alla produzione del suo sostituto sintetico (cetilpalmitato), lo spermaceti fu ricavato dalla testa della balena. Il nome fu dato anticamente a questa sostanza perché la si riteneva il seme del cetaceo.

giovedì 21 febbraio 2008

3- IMPARARE CAMMINANDO

La teoria dell’ embodied mind può essere sintetizzata con una certa semplicità: noi pensiamo con tutto il nostro corpo. La sede del pensiero e della comunicazione non è solo il cervello.
Al livello dell’evoluzione della specie, è dimostrato che la nostra cultura e il nostro modo di pensare si sono sviluppati in certi modi perché, ad esempio, possediamo un pollice opponibile e due occhi frontali (non laterali).
Al livello del comportamento individuale, è dimostrato che i pensieri mutano a seconda della posizione del corpo, o del modo di camminare.
Possiamo dire che certi pensieri e certi modi di pensare sono diversi se stiamo seduti a una scrivania o se stiamo camminando.
Fare formazione in piedi, muovendosi, magari all’aperto non è solo una moda che avanza sotto il nome di outdoor training. C’è un fatto: i pensieri e le discussioni sono diversi. Chiunque ci abbia provato lo può testimoniare.
Non è necessario buttarsi nell’agone delle prove di sopravvivenza. Basta anche solo discutere in piedi, rappresentando le proprie affermazioni su grandi fogli appesi. E poi partire per una passeggiata in cortile o in giardino.

lunedì 18 febbraio 2008

2- EMBODIED MIND – IL PENSIERO NEL CORPO

Noi pensiamo non solo con la mente, ma con tutto il corpo. E pensiamo in un certo modo perché il nostro corpo è fatto in un certo modo. E i nostri pensieri sono diversi a seconda degli stati del nostro corpo.
L’embodied mind è un concetto dell’embodied philosophy (Mark Johnson, Gorge Lakoff, Mark Turner, Rafael E. Núñez e altri), che afferma che il nostro modo di pensare può essere pienamente capito solo tenendo conto di come esso risieda e sia influenzato dalle strutture del nostro corpo, così come esso è stato plasmato dall’evoluzione e così come oggi lavora in ognuno di noi.
Le cose che noi pensiamo e il modo in cui le pensiamo, ad esempio, sono determinate fortemente dalle nostre strutture percettive (il fatto che abbiamo due occhi frontali, o un pollice opponibile): pensate alle immagini mentali, al linguaggio dei segni, alla percezione dei colori, alla visione prospettica, alle metafore che usiamo nel parlare, ecc.
Dice Johnson (1999) che l’embodied philosophy è in grado di mostrare come le leggi del pensiero siano metaforiche, non logiche; la verità è quindi piuttosto una costruzione metaforica, non un attributo della realtà obiettiva.
Le conseguenze di questo pensiero sono enormi. Facciamo solo due esempi:
L’idea di verità costruita è il contrario del fondamentalismo. L’etica che ne nasce è quella che ricerca continuamente le possibilità del dialogo tra le diversità nel reciproco rispetto.
Se il mio modo di pensare dipende dal modo di vivere e di muoversi del mio corpo, può darsi che pensare camminando generi idee diverse dal pensare stando seduti. È evidente che queste riflessioni generano idee nuove (o forse vecchissime: Aristotele teneva le sue lezioni passeggiando nel giardino della sua scuola ad Atene) in merito all’organizzazione dei nostri sistemi di apprendimento, ai nostri modi di fare formazione.

domenica 17 febbraio 2008

1- KNOWLEDGE MANAGEMENT E SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA

Knowledge management e società della conoscenza sono termini usati in molti contesti. Qui ne segnaliamo i due forse più importanti
Quello delle organizzazioni di lavoro.
Quello delle strategie di sviluppo dell’Unione europea.
PER LE ORGANIZZAZIONI DI LAVORO: è evidente che se hai una fabbrica, per produrre hai bisogno non solo di capitale fisico (impianti, macchinari, ecc.), ma anche di capitali più “intangibili”, tra cui le conoscenze delle persone che progettano, producono, vendono. Il KM è la cura (la ricerca, lo sviluppo, la difesa) di queste conoscenze. Questo vale ancora di più nel terziario, che come sappiamo occupa una parte sempre più importante nelle nostre economie. E vale ancora di più in quel terziario reticolare e velocissimo che è il mondo di Internet. Non c’è organizzazione di oggi che possa permettersi il lusso si non dedicare cura a questo capitale, intangibile ma importantissimo.
PER L’UNIONE EUROPEA: all'inizio degli anni Novanta due fenomeni di vasta portata hanno rivoluzionato il mondo: da un lato, l'emergere della globalizzazione, con la sempre maggiore interdipendenza delle economie e, dall'altro, la rivoluzione tecnologica, con l'arrivo di Internet e delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione.
I leader dell'Unione europea si sono resi conto della necessità di una profonda modernizzazione dell'economia europea per essere in grado di competere con gli Stati Uniti e con le altre grandi nazioni. Riunitosi a Lisbona nel marzo 2000, il Consiglio europeo ha conferito all'Unione un ambizioso obiettivo: diventare entro il 2010 "l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale."

sabato 16 febbraio 2008

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Acta è una società per la gestione e lo sviluppo della conoscenza.
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