domenica 28 settembre 2008

24 Colombo inventò l’America

Ma tutto questo conduce forse a conclusioni pessimiste? Se non siamo sicuri che il progresso della scienza sia veramente il progresso dell’umanità, se non c’è più un punto di Archimede da cui osservare indisturbati il mondo, se le nostre capacità di previsione in sistemi complessi sono intrinsecamente limitate, se la Verità (con la V maiuscola) non esiste, dobbiamo rifugiarci nello scetticismo?
Io credo di no.
Ci sono molte alternative alla sensazione di incertezza che la complessità genera.
Una interessante consiste nl rivalutare la dimensione del soggetto che conosce, che osserva, che progetta la complessità.
Kant ha sancito questo slittamento da un'epistemologia della rappresentazione ad una epistemologia della progettazione, dell'invenzione. Egli osservò, in modo che è divenuto famoso, che l'intelletto umano non scopre le leggi di natura, ma le "prescrive" ad essa. Se gli scienziati credevano un tempo che le loro metodologie li portassero a scoprire le leggi presenti in natura, dopo Kant (e dopo la sistematizzazione che di questa intuizione abbiamo fatto infine grazie a Popper) nessuno di loro può più avere questa speranza: il processo della innovazione scientifica si basa sulla costruzione di nuove ipotesi che spiegano meglio, ma tale costruzione è, come dice la parola stessa, un atto di creazione, di innovazione, di invenzione. Buone e semplici maestre ci hanno insegnato a scuola la distinzione tra scoperte e invenzioni, spiegandoci che Cristoforo Colombo "scoprì" l'America e il signor Watt "inventò" la macchina a vapore. Oggi questa tradizionale distinzione è superata: le scoperte non esistono, o meglio, sono anch'esse invenzioni, che durano e reggono finché non interverrà qualcosa a contraddirle. In un passaggio famoso, Popper ci dice che lo stesso Cristoforo Colombo non scoprì l'America, la inventò!

giovedì 18 settembre 2008

23 Connotazione storica e sociale della verità

Un’altra acquisizione del nostro secolo è il fatto di concepire la verità scientifica come socialmente e storicamente connotata. Feyerabend fa notare che, dopo essere stata in passato la grande accusatrice di un sistema di verità imposte per fede (dalla chiesa e dalla filosofia metafisica) la scienza si è tramutata essa stessa, oggi, un sistema di fede e di potere (“il giudizio dello scienziato è accolto con la stessa reverenza con cui era accolto non troppo tempo fa quello di vescovi e cardinali”[1]). La sociologia della scienza ha affermato che il metodo scientifico non è un fatto asettico ed universale, ma connotato nell’ambiente sociale. Ciò vale per le macro-società, ed è risaputo. Ma vale anche per società locali, quali sono le Istituzioni nelle quali lo scienziato fa ricerca. Spesso questo non è ancora capito nelle aziende. In molte organizzazioni di ricerca legate all’industria il modello sotteso al metodo di ricerca è, a ben vedere, ancora quello tayloristico. E questo vale anche per le discipline umane: all’Isvor Fiat si parla di ingegnerizzazione della formazione! Così, nelle Università sulla ricerca si riverbera pesantemente il modello burocratico in cui pochi detengono il potere delle scelte e delle priorità
[1] P. Feyerabend, in Ian Hacking (a cura di) Rivoluzioni scientifiche, Laterza, 1989