lunedì 28 aprile 2008

14 Il paradosso dei confini

Lo stesso concetto di sistema è relativo; i suoi confini rispetto all'ambiente sono sempre arbitrari, tracciati simbolicamente dall'osservatore.
È un concetto ben noto. Ovunque si tracci un confine (geografico, sociale, economico, concettuale) le popolazioni prossime al confine stesso sono in situazioni di discontinuità paradossale. Un altoatesino si sente (ed è) assai più prossimo ad un austriaco che a un siciliano. La definizione delle aree a declino industriale per i finanziamenti europei ha creato paradossi dei confini come questo: un’azienda che ha la propria sede sul lato sinistro di un Corso Regina Margherita a Torino può accedere ai finanziamenti e il suo dirimpettaio del lato destro (distante pochi metri e in tutto e per tutto simile) no.
Ma la sua conseguenza più innovativa dell’affermare la relatività dei confini è legata al fatto che la "chiusura" sistemica diviene almeno altrettanto importante dell' "apertura" del sistema, perché è sinonimo della sua identità. Dopo anni di prediche ed enfasi sull’importanza dell’apertura all’ambiente, l’epistemologia delle scienze umane comincia a recuperare il valore di un certo grado di chiusura. Come individuo in un gruppo o come sistema in un sovra-sistema io ho bisogno di un certo livello di confine, di chiusura per non perdere la mia identità, per affermare un mio “io”.
Si noterà che in questa prospettiva emerge la differenza, che riprenderò, tra chiusura (positiva) e isolamento (negativo). Ciò contro cui ha combattuto l’approccio sistemico in sociologia e psicologia è l’isolamento, non la chiusura.

venerdì 18 aprile 2008

13 LE SCIENZE INESATTE

Mentre le scienze umane facevano i conti con la circolarità osservatore/osservato, accadevano cose inaudite proprio nel beato mondo delle scienze esatte: le previsioni newtoniane rispetto all'evoluzione dei pianeti incominciavano a mostrare alcune piccole pecche che, come crepe in una diga, si andavano piano piano ingrossando.
D'altro canto, comparivano sulla scena studi e teorie come quella di Einstein ("relatività"), di Boltzmann ("entropia") e Heisenberg ("indeterminazione"): il mondo certo della fisica (la più certa delle discipline positivistiche) si mostrava invece incerto ab imis fondamentis . Divenivano incerti proprio i concetti fondamentali che una volta erano scontatamente dati per certi, come quelli di spazio, di tempo, di energia, di osservabilità.
Accadde dunque un fenomeno impensabile si tempi del povero Comte, che aveva passato tutta la propria vita a cercare di dimostrare che la sociologia, benché si occupi di quell'oggetto incerto che è l'uomo, può essere scienza certa, in grado di dire e predire; aveva cercato di dimostrare che il sociologo, benché sia sempre un uomo che riflette sull'umanità -e dunque su se stesso- può evitare i pregiudizi, la soggettività.
Accadde infatti non già che le discipline umanistiche divennero esatte, ma che quelle esatte (la fisica, la chimica, l'ingegneria, ecc.) divennero -o meglio si riconobbero- come inesatte. E da questa straordinaria (e ancora oggi da molti rifiutata, in una sorta di strenua difesa) presa di coscienza esse derivarono la necessità di volgere l'attenzione agli apparati di ricerca che le discipline umanistiche (invischiate nel problema dell'imprecisione e dell'incertezza da sempre) avevano elaborato.
Il mito della modernità venne abbandonato, perché:
a - nel momento in cui osserva, in cui conduce un esperimento, lo scienziato sta già modificando quella realtà che in sua assenza era sicuramente diversa (ma egli non potrà mai sapere come); ad esempio, il principio di indeterminazione di Heisenberg afferma che è impossibile determinare contemporaneamente posizione e velocità di una particella elementare con una precisione superiore ad un certo limite; una delle ragioni di questo limite (che dipende dalla costante di Planck) è legata al fatto che nel momento in cui osservo una particella io letteralmente la "bombardo" e dunque la sposto, la modifico;
b - non esiste un punto di osservazione neutrale, lo scienziato osserva sempre a partire dalle proprie pre-conoscenze, dai propri pre-giudizi, perché egli è un uomo che "esiste nel mondo" (Dasein) e in quel mondo è andato a scuola, ha elaborato le proprie basi di conoscenza; infiniti esempi possono essere condotti su questo punto: quante volte gli studiosi hanno osservato il comparire di certe muffe, di certe fermentazioni in certe condizioni? eppure solo Fleming scoprì la penicillina nel 1928, perché aveva il back-ground di studi e di conoscenze del suo tempo, che gli permise di com-prendere ciò che osservava sotto una luce nuova, e quindi di elaborare una teoria interpretativa.

venerdì 11 aprile 2008

12 IL SELVAGGIO E L’ESPLORATORE

E mentre questo scarto fortissimo di prospettiva accadeva in filosofia, con Heisenberg entravamo in pieno nella scienza post-moderna.
L'idea centrale della scienza moderna era infatti molto diversa e poggiava sulla certezza che vi fosse la possibilità di osservare il mondo da un punto di vista distaccato, asettico. Lo scienziato conduce un esperimento, osserva l'oggetto del suo esperimento senza influenzarlo e senza esserne influenzato. Lo scienziato è neutrale. L'esperimento "parla" in modo oggettivo e questo linguaggio oggettivo, inequivocabile, delle cose è perfettamente formalizzabile dalla matematica.
Gli studiosi delle discipline umanistiche, invece, si erano accorti da tempo che le cose non potevano andare così nel loro caso: lo psicologo con il suo paziente, l'antropologo con la sua tribù, il sociologo con la sua società non riuscivano a garantire questa asetticità, questa separatezza tra osservatore ed osservato, questa certezza matematica. E infatti, in piena sbornia razionalista e modernista, la sociologia nacque nel Settecento (con A. Comte, che non fu certo il primo sociologo, ma certo il primo ad autodefinirsi tale, identificando una disciplina autonoma) con un vero e proprio "complesso di inferiorità" nei confronti di quelle branche della conoscenza che i positivisti esaltavano come "scienze esatte": la fisica (specialmente la meccanica), la biologia, la chimica, la matematica, e così via. La rappresentazione più potente di questa idea di scienza moderna "esatta" era senz'altro la teoria di Newton, con la sua eleganza onnicomprensiva.
Ma, col tempo, quel complesso di inferiorità è divenuto consapevolezza della diversità e occasione positiva di elaborazione di metodi di intervento che facessero i conti con il circolo ermeneutico. Prendiamo il caso dell'antropologia culturale, cioè di quella disciplina che studia le culture dei vari gruppi umani; essa iniziò a studiare le caratteristiche fisiche e organiche dei vari gruppi razziali (oggi questi studi vengono prevalentemente indicati con il termine di "antropologia fisica"); sviluppò poi tutta una branca che si occupava dello studio dei fenomeni sociali e culturali delle popolazioni primitive (oggi questi studi vngono spesso distinti con il termine di etnologia); più di recente essa ha allargato il campo della suua indagine fino a comprendere lo studio di tutti i fenomeni culturali (riti, miti, simboli, tabù, ecc.) di un gruppo umano, sia esso una popolazione o un quartiere o una squadra di calcio o un'azienda. Il sistema di indagine dell'altropologia è tipicamente basato sulla presenza dello scienziato all'interno della popolazione che osserva. Ma fu chiaro fin da subito che questa sua presenza non poteva garantire l'asetticità dell'osservazione. Nel momento stesso in cui il nostro antico antropologo atterrava con il suo aereo mono-elica tra i membri di una tribù della giungla del Borneo, ne scendeva vestito di tutto punto, e magari si acendeva una sigaretta, egli aveva già di fatto e irrimediabilmente cambiato quella tribù: il soggetto dell'osservazione aveva modificato l'oggetto, in modo irreversibile. Così, l'antropologia culturale imparò a tenere conto di questa prospettiva che integrava lo scienziato nella società e cultura sociale oggetto della sua osservazione ed elaborò metodi di ricerca specifici, come ad esempio quello basato sul concetto di osservazione partecipante, poi esportato in tutte le discipline umanistiche. Un altro caso importante è rappresentato dalla psicanalisi, che fondò tutta la propria forza nell'intepretazione del linguaggio (la medicina delle parole). L'inconscio è parola, ci ha dimostrato Freud, l'Es parla ("ça parle") ci ha detto Lacan. Dal canto suo, tra le altre cose è interessante notare come la sociologia abbia spostato progressivamente il suo tiro dal calcolo di certezza al calcolo di probabilità.

mercoledì 9 aprile 2008

11 IL DUBBIO COME VACCINO CONTRO L’INTEGRALISMO

Il circolo ermeneutico nell'ambito dell'interpretazione di cui ho parlato nel post precedente è un'intuizione geniale. Lo potremmo definire un collegamento ricorsivo di cui il famoso anello di Moebius è la rappresentazione grafica.
Una versione più complessa del circolo ermeneutico è costituita dal punto in cui Heidegger sostiene che la nostra conoscenza del mondo non parte dal nulla (la vecchia teoria della "tabula rasa"), ma è sempre l'articolazione, lo sviluppo di una pre-comprensione originaria, per cui nessuno può sperare di entrare in rapporto con la realtà scevro da pre-supposti e pre-giudizi. Ma questa considerazione, che per le filosofie precedenti era portatrice di pessimismo e sanciva la necessità di combattere questi pregiudizi, assume in Heidegger una dimensione per un certo verso positiva, poiché, una volta che se ne è consapevoli, essa costituisce lo scenario che permette la conoscenza; una volta che se ne è cosapevoli, essa abbatte il mito delle certezze (in nome delle quali troppi roghi, troppi lager l'uomo ha costruito) e apre la porta al dubbio, al legittimo dubbio, all'onesto dubbio, al dubbio che crea, che lascia aperte le porte del dialogo, che non chiude mai fino in fondo i ragionamenti, che non genera ortodossie, non genera dittature. Gadamer ha approfondito e portato alle estreme conseguenze questa idea del pregiudizio, costruttivo quando consapevole.

domenica 6 aprile 2008

10 LA PERDITA DEL PUNTO DI ARCHIMEDE

Come è noto, si racconta che Archimede avesse detto la famosa frase "datemi un punto d'appoggio e vi solleverò il mondo". Naturalmente, facendo egli stesso parte del mondo, non poteva avere quel punto d'appoggio su cui fare leva. Il punto di Archimede è divenuto dunque il simbolo del punto di vista privilegiato, esterno al sistema, asettico, onnicomprensivo, da cui gli scienziati della scienza classica hanno cercato di condurre (o hanno affermato di condurre) le loro osservazioni.
Il "punto di Archimede" non esiste.
Esso va inteso sia come legge eterna e necessaria, sia come punto di osservazione asettico e non coinvolto; dire che tale punto privilegiato non esiste significa affermare che l'osservatore è coinvolto nel sistema di osservazione con l'oggetto osservato, in una ricorsività ineludibile: osservatore ed osservato si influenzano a vicenda. Dopo secoli di sterili ricerche del "punto archimedico", oggi l'osservatore viene reintegrato nel sistema che osserva. Questo fatto, che chiamiamo ricorsività, caratterizza oggi tutta l'epistemologia e tutte le scienze fisiche, naturali e sociali.
Questa ricorvità tra osservatore e osservato, tra soggetto e oggetto della conoscenza è oggi talmente forte, come convinzione, da portare molti metodologi a proporre di abbandonare definitivamente i termini stessi di osservatore ed osservato, di soggetto ed oggetto, che presuppongono una gerarchia, una priorità che non esistono in natura e sono state solo il frutto della nostra prospettiva antropocentrica.
Nel famosissimo paragrafo 32 di Essere e Tempo, Heidegger analizza il cosiddetto "circolo ermeneutico".
Una delle versioni del circolo ermeneutico (probabilmente la più famosa, ma anche la meno complessa) è proprio quella dell'ambivalenza e ricorsività che intercorre tra un osservatore e l'oggetto della sua osservazione. L'oggetto della conoscenza influenza il soggetto (infatti gli fornisce informazione), ma anche il soggetto influenza l'oggetto (infatti lo modifica, con il proprio intervento o con la propria interpretazione). E questo in un circolo senza inizio e senza fine. Heidegger diceva queste cose quando già il fenomeno era ben chiaro nel caso delle scienze umane, ma prima che all'umanità fossero chiare le scoperte di Heisenberg sul fatto che le cose funzionano così anche in fisica (principio di indeterminazione).

giovedì 3 aprile 2008

9 IL FILO DI LANA SI SPOSTA IN AVANTI

Possiamo dire, sintetizzando, che la concezione tradizionale della scienza è stata quella dell'esplorazione e della bonifica di un cosmo visto come meccanicamente ordinato (Keplero, Newton): di fronte ad un universo da conoscere, la scienza (attraverso esperimenti, leggi, invenzioni) si muove come un esploratore che progressivamente sposta in avanti il confine tra terra conosciuta e terra incognita. La parte conosciuta aumenta, quella sconosciuta diminuisce.
E' un processo asintotico di avvicinamento progressivo alla verità. C’è un filo di lana che sarò raggiunto alla fine della corsa: sarà il momento in cui avremo capito tutto.
Ma se questa verità non esistesse nella forma così armonica come noi ce la immaginiamo (auspichiamo)? Se non fosse unica ma molteplice, non certa ma cangiante e disordinata? Se il filo di lana non esistesse?
In effetti, nel XIX secolo fa la sua irruzione nel panorama scientifico la realtà del disordine:
• il concetto di entropia del secondo principio della termodinamica di Boltzmann
• quello di relatività di Einstein
• quello di indeterminazione di Eisenberg
• il quanto di energìa di Planck
costruiscono un panorama di "disordine costitutivo" alle basi fondamentali dell'universo.
Il risultato è un capovolgimento della logica asintotica: ora il percorso della scienza sembra una gara in cui il traguardo si sposta in avanti mentre corriamo. Ad ogni scoperta (aumento della conoscenza) corrisponde l'apertura di nuove incognite (aumento dell'ignoranza).
La sfida della complessità si presenta oggi dunque come la necessità di fare i conti con oggetti della nostra attività che sono per definizione imprevedibili, cangianti, caotici.

mercoledì 2 aprile 2008

8 ANTIMECCANICISMO

Abbiamo visto che ci sono due livelli di concezione della complessità: uno riguarda la grande quantità di variabili in gioco (più che complessità potremmo parlare di complicazione); il secondo individua la complessità nel fatto che, in un sistema, abbiamo sempre una parte che sfugge al controllo, alla previsione, alla modellazione.
Possiamo dire che questo livello è una grande novità del nostro secolo, e celebra definitivamente il crollo del mito della razionalità totale, della certezza, dell'onnicomprensività, della predittività assoluta della scienza: un universo incerto si delinea per tutte le branche della conoscenza.
A questo livello, quello della complessità è un approccio antimeccanicista e olista che in modo più o meno consapevole accomuna in modo trasversale studi come, ad esempio, quelli sul concetto di organizzazione di W.R. Ashby, sulla teoria dei sistemi osservanti di H. Von Foerster, sulla cibernetica di N. Wiener, sull’autopoiesi nei sistemi biologici di H. Maturana e F. Varela, sull’ecologia della mente di G. Bateson, sull’epistemologia genetica di J. Piaget, sull’ecologia della Terra (“Gaja”) di J. Lovelock, sui sistemi sociali chiusi di N. Luhmann, sull’olismo epistemologico di E. Morin, e molti altri.
Noi oggi chiamiamo “complessità” proprio il comune terreno epistemologico, la comune sfida che queste diverse discipline stanno affrontando, cambiando radicalmente il proprio modo di porsi di fronte ai problemi, rispetto alla tradizione scientifica classica.