lunedì 11 maggio 2009

43

Ho sottoposto questo gioco di “caccia alle gazzelle” a centinaia e centinaia di persone.
In genere, io svolgo il ruolo di “animatore” del gioco.
In una prima fase, chiedo a ogni giocatore di decidere cosa fare. In questa fase, i giocatori non si incontrano, non si parlano (li tengo proprio in stanze separate), e per questo spesso decidono di non collaborare, cercando di accaparrarsi il bottino maggiore per sé a scapito dell’altro. Ma siccome entrambi fanno questo ragionamento, finiscono per cadere nella situazione peggiore.
Dopo alcune giocate di questo tipo (che finiscono prevalentemente nella situazione 1+1), il ragionamento è chiaro:
Io che cosa mi aspetto? Se non ti conosco e non ho motivo per fidarmi di te, noto che, indipendentemente da ciò che farò io, per te la scelta migliore sarà comunque quella di barare. Come mostra la tabella, infatti, se io coopero, tu barando ottieni di più (3 gazzelle anziché 2); e se io baro, tu barando ottieni comunque di più (una gazzella anziché niente). Pertanto, ne deduco che tu sceglierai di barare.
La scelta più razionale a livello individuale è quella di non cooperare!
Ma siccome entrambi siamo esseri razionali, entrambi decidiamo di barare e finiamo nella situazione peggiore a livello di “sistema”: 1+1=2, il risultato peggiore se si calcola la somma dei due giocatori (negli altri casi abbiamo o 3 o 4).
Alla fine ogni giocatore capisce e fa questo ragionamento: a te conviene barare. Ma naturalmente tu a tua volta, applicherai questo medesimo ragionamento a me, convincendoti che io barerò. Così, ciascuno di noi sa che l’altro sceglierà di barare e che, di conseguenza, torneremo a casa dalla nostra battuta di caccia con una sola gazzella a testa, che probabilmente sarebbe troppo poco per giustificare lo sforzo richiesto.
Presto si sviluppa una certa frustrazione, causata dal fatto che io, come “animatore” del gioco non sto permettendo ai giocatori di incontrarsi (si noti per inciso che il nome originario del gioco è proprio dilemma del prigioniero: di cosa sono prigionieri i due giocatori? Proprio dell’impossibilità di comunicare!)
A questo punto inizia una seconda fase, in cui permetto ai giocatori di incontrarsi.
Qui i ragionamenti cominciano a cambiare:
Se ci conosciamo e ci fidiamo l'uno dell'altro, possiamo promettere di collaborare e aspettarci di essere creduti. In questo caso, vale la pena di collaborare per la caccia, dato che otterremo due gazzelle a testa: la fatica della battuta sarà ben ricompensata a livello individuale (2 gazzelle) e ottimamente ricompensata a livello di gruppo (2+2=4, massimo possibile).
Così, se ci fidiamo vicendevolmente, abbiamo davanti migliori opportunità: il risultato complessivo sarà più alto.
Il fatto di incontrarsi, di entrare in comunicazione permette di trovare un accordo per la situazione migliore. Spesso i giocatori impiegano un po’ di giocate per imparare a fidarsi a vicenda, per stipulare un accordo e per rispettarlo. A volte uno dei due si fida di più e coopera subito, ma l’altro lo “frega” e si becca 3 gazzelle. A volte, il cooperatore, bruciato dall’esperienza, non si fida più per diverse giocate. Per diverse giocate i due ricadono nella situazione peggiore.
Ma praticamente sempre (è solo una questione di tempo) i giocatori imparano progressivamente a fidarsi e a convergere sulla situazione migliore. Spesso elaborano anche discussioni creative su come garantire l’accordo: firmiamo un documento, esistono delle punizioni, ci mettiamo d’accordo per dividere sempre in ogni caso il risultato della caccia, ecc. Queste elaborazioni sono interessanti perché ripercorrono spesso quello che nei secoli ha fatto l’umanità nell’ambito del funzionamento sociale e del diritto positivo: accordi, contratti, leggi, premi, pene, punizioni, ecc.
La cooperazione, quindi, non è un gioco a somma zero (dove uno vince solo se l'altro perde), ma è un gioco in cui possono vincere entrambi. Se gli esseri umani non fossero stati in grado di cooperare in questo modo, non sarebbero probabilmente sopravvissuti alle asprezze della vita nella savana.
Probabilmente questa capacità è stata uno dei grandi vantaggi evolutivi della specie homo.
Oggi possiamo dire che l’evoluzione ha “cablato” nei nostri neuroni la capacità di collaborare, di essere animali sociali. Ma la cosa interessante è che questa etica profonda è fondata, come dimostra il gioco, non necessariamente su un’etica dei valori (“si deve collaborare perché è giusto”) ma anche solo su un etica delle conseguenze, ovvero sul calcolo razionale dei pro e dei contro delle diverse alternativa (“si deve collaborare perché conviene”).

martedì 28 aprile 2009

42 A caccia di gazzelle

Proviamo a immaginarci nei panni di due nostri progenitori che s’incontrano e si mettono a discutere se partire per una battuta di caccia alle gazzelle.
Chiamiamoci «tu» e «io».
L'esito della caccia dipenderà fondamentalmente da come ognuno di noi accetterà di fare la propria parte. Io posso scegliere di cooperare, aiutandoti a catturare le gazzelle e mettendo in comune le prede, oppure di barare, lasciando che sia tu a fare tutta la fatica e venendo poi a sottrarti gli animali uccisi. Naturalmente, anche tu hai davanti la medesima alternativa.
Se rimaniamo insieme, otterremo il risultato migliore - due gazzelle a testa. Ma se tu bari e io no, tu tornerai a casa con tre gazzelle, e io resterò a mani vuote - o il contrario, se sarò io a scegliere di comportarmi slealmente. Infine, se sceglieremo entrambi di barare e ce ne andremo ciascuno per conto proprio, alla fine della giornata avremo catturato soltanto un animale a testa.
Ora immedesimati in uno dei due cacciatori. Cosa fai?

venerdì 20 marzo 2009

41 Giochi di cooperazione

Iniziamo oggi un breve percorso sulla questione della cooperazione.
Nel 2005 l'israeloamericano Robert J. Aumann e lo statunitense Thomas Schelling ottennero il premio Nobel per l'Economia per i loro studi sulla teoria dei giochi e per aver tramite questi dimostrato che la cooperazione è più produttiva della guerra
La matematica della teoria dei giochi è molto complessa, ma uno dei suoi cardini si fonda sul famoso dilemma del prigioniero che non a caso parla proprio di collaborazione. Ne ho trovato una versione efficace in un libro di Richard Layard (“Felicità”, Rizzoli) e ve la proporremo nel prossimo post.

domenica 15 febbraio 2009

40. Incapaci di giocare

I casi raccontati nei due post precedenti riguardano un fatto su cui oramai concordano tutti gli psicologi, gli economisti, i biologi: l’evoluzione ha “cablato” nel nostro cervello riposte automatiche che poco si accordano con la complessità.
Simon ha dimostrato che il nostro cervello non è in grado di cogliere la complessità. Kahneman (nella foto) ha dimostrato che nelle decisioni che riguardano dinamiche collettive come quelle economiche non siamo così razionali come vorrebbe la vecchia teoria dell’homo oeconomicus.
In effetti, per almeno un milione di anni siamo vissuti in piccole comunità, abbiamo combattuto per il cibo contro competitori potenti, ci siamo difesi da predatori feroci. Questo ha fatto sì che la selezione naturale ci dotasse di risposte automatiche verso il pericolo, ci orientasse a cercare ripetizioni e persistenze nella realtà, ci rendesse sospettosi verso gli estranei, ci spingesse a vedere alleati solo in quelli del nostro ristretto piccolo gruppo.
Si tratta, in generale, di automatismi adatti a giochi “piccoli” e a “somma zero”.
Nulla a che vedere con un’economia e con una cultura globalizzata.
Internet sta prendendo il piccolo australopiteco diffidente e lo sta sbattendo nell’oceano dei giochi “a somma maggiore di zero”, dove le opportunità sono enormi ma lui non ha occhi per vederle.

sabato 24 gennaio 2009

39 Il tacchino in Internet


Vediamo un altro errore tipico della nostra mente di fronte alla conoscenza. Internet (insieme alla tivù satellitare) stanno aggiungendo qualcosa di più evidente alla vecchia questione del pollo di Bertrand Russell. Nella sua versione più conosciuta (americanizzata) essa è raccontata come la storia di un tacchino. Questo tacchino era piuttosto felice; ogni giorno un umano si presentava dalle sue parti per dargli da mangiare. Man mano che il tempo passava, il tacchino aumentava la propria certezza che anche l’indomani, e ogni giorno a seguire, l’umano gli avrebbe portato da mangiare: dopo diversi anni non c’era oramai da dubitarne. Benediceva Dio per avergli dato questa fortuna, una vita di ozio e tranquille certezze. Ed era anche abbastanza orgoglioso del fatto di avere questa abilità di previsione: ogni giorno era in grado di prevedere con ragionevolezza che il giorno dopo avrebbe avuto da mangiare, e il giorno dopo i dati gli confermavano la sua previsione. La felicità aumentò ancora quando cominciò a notare che le razioni giornaliere aumentavano sempre di più. Finché venne la vigilia del Giorno del Ringraziamento, e al grasso tacchino accadde qualcosa che non aveva assolutamente previsto…
Si tratta, in versione favolistica, della tradizionale argomentazione sull’inaffidabilità dell’induzione: se ogni giorno il mondo va in un certo modo, nulla ci può garantire che lo farà anche domani. L’imprevisto è sempre in agguato. Si dice normalmente che sia stato Hume a porre questa questione nella maniera più forte, anche se già se ne parlava ai tempi degli Scettici nell’antica Grecia.
Nelle dinamiche della Borsa questo fenomeno è evidente. I trend (ad es. in crescita) che ci autorizzano a prevedere una crescita anche domani possono essere smentiti da un evento improvviso che causa un crollo imprevisto. Ma oggi a questa dinamica si aggiunge l’effetto di ricorsività e velocità del web. Tutti coloro che speculano in borsa (diciamo il “parco buoi”) sono costantemente collegati a siti che più o meno uniformemente consigliano se comprare, tenere o vendere un titolo. Se tutto il mondo fa riferimento più o meno allo stesso dato, il fenomeno si autoconferma e si autoincrementa. In secondo luogo, tutti quelli che speculano in Borsa operano oramai direttamente con il PC collegato alla rete e possono fare moltissime operazioni in poco tempo. Grandi numeri, ricorsività, velocità: tutte caratteristiche tipiche dei sistemi complessi. Il risultato è che il fenomeno Borsa è isterico, ipersensibile, può cambiare in modo repentino e devastante.
Tutti pensano di prevedere il futuro sulla base di dati del passato e del presente che hanno a diposizione (‘induzione del tacchino, già sufficientemente dimostrata come inaffidabile da tutta l’epistemologia). Ma non si rendono conto che in realtà stanno essi stessi contribuendo a determinare il futuro che sperano o temono. Finché tutti continuano a pensare che convenga comprare, comprano e fanno accadere ciò che sperano, ovvero la crescita dei valori dei titoli. Ma se qualcosa fa invertire il meccanismo e tutti cominciano a vendere, fanno accadere ciò che temono.
Il tacchino si mette da solo nel forno.

mercoledì 14 gennaio 2009

38 Errori tipici


Esempi lampanti di errori in cui cadiamo più o meno tutti riguardano i nostri tentativi di previsione. Ad es., molti applicano malamente la teoria dei grandi numeri alle giocate del Lotto, con l’attesa spasmodica dei numeri ritardatari. Proverò a spiegarmi con un esempio semplice, legato a giocare a testa o croce con una monetina, per fare vedere che questa tendenza del nostro cervello ad ingannarsi è comune a tutti noi.
Partiamo da due affermazioni sulle quali vi chiedo se siete d’accordo:
a) se la moneta non è truccata, la sua struttura fisica determina che ci sono 50 probabilità su cento che esca croce e al 50 che esca testa
b) su un numero molto alto di giocate (tendente a infinito) le uscite saranno per il 50% testa e per il 50% croce (legge dei grandi numeri).
Se siete d’accordo su entrambe le affermazioni, siete nel giusto. Inoltre, le due affermazioni si confermano a vicenda.
Ora, supponiamo che nelle ultime sette giocate sia sempre uscita testa. La maggior parte di noi sarà portata a credere che ci siano più probabilità che esca croce. Se anche in questa ottava giocata la monetina si fermerà su testa, le nostre aspettative che esca croce aumenteranno ancora, e così via. Esse nascono dalla consapevolezza dell’affermazione (b).
Ma se ci pensate un attimo, non potete non ammettere che la moneta è sempre la stessa dell’affermazione (a): se la moneta non è truccata, la sua struttura fisica la può fare cadere al 50% su croce e al 50% su testa anche nella prossima giocata. Non è cambiato nulla nella sua struttura fisica, per effetto delle ultime otto giocate. Un'altra cosa che, se ci pensate un attimo, vi troverà d’accordo è che se in questo momento la moneta vola in alto per la nona giocata, essa non ha nessuna memoria delle giocate precedenti, siano esse state o no tutte su croce. Insomma, ad ogni giocata le possibilità sono quelle dell’affermazione (a) e attendersi qualcosa di diverso giocando cifre irragionevoli su “croce ritardataria” non è assolutamente ragionevole. Eppure è quello che fanno centinaia di migliaia di persona giocando al loto sui numeri in ritardo.

venerdì 9 gennaio 2009

37 Un cervello inadatto alla complessità


Questo blog ha iniziato parlando di complessità. Poi il filo dei ragionamenti ci ha portato a parlare di quel sistema complesso per eccellenza che è Internet.
Torniamo ora, a inizio 2009, ad occuparci per un poco del tema della complessità in relazione a come funziona il nostro cervello.
Da diversi anni, oramai, il Premio Nobel Herbert Simon ci ha chiarito che la mente umana non è strutturata per costruire visioni complete ed esaustive dei sistemi che osserva, e a maggior ragione di quelli nei quali vive. Difficilmente ci costruiamo una visione d’insieme, anzi possiamo dire che è impossibile. La ragione umana non è uno strumento “per elaborare e prevedere l’equilibrio generale dell’interso sistema mondo, o per cercare un potente modello generale che tenga conto di tutte le variabili”. Essa è piuttosto uno strumento per muoversi in piccole nicchie, per esplorare piccoli pezzi o singoli problemi. E lo fa utilizzando delle “euristiche” che funzionano abbastanza bene, ma che non hanno nulla di scientifico.